DIETRO LE QUINTE DEL MET: GLI SCIENZIATI DEL BELLO SONO TRE ITALIANI – di Giulia Pozzi e Stefano Vaccara

NEW YORK\ aise\ - Marco Leona, Federica Pozzi, Elena Basso: ecco chi applica alle opere del Metropolitan e di tanti altri musei newyorkesi la (necessaria) lente scientifica. Intervistati da Giulia Pozzi e Stefano Vaccara per La Voce di New York, i tre scienziati affermano: "Non chiamateci cervelli in fuga". Marco Leona è il fondatore del dipartimento scientifico del Metropolitan Museum, e, insieme alle sue collaboratrici italiane Federica Pozzi e Elena Basso, è orgoglioso di fornire alle opere d'arte del Met e di tanti musei della Grande Mela un'interpretazione scientifica. Forti della preparazione ricevuta in Italia, ma risoluti nel definire l'America la "land of opportunity".
Di seguito il testo integrale dell’articolo pubblicato sul portale di informazione bilingue che Vaccara dirige a New York.
"Non tutti sanno che, nei sotterranei del Metropolitan Museum of Art di New York, uno dei musei in assoluto più famosi e prestigiosi al mondo, c’è un altro Metropolitan. Un museo nel museo, a cui si accede scendendo, anziché salendo, l’imponente e maestosa scalinata principale, quella che accoglie i visitatori e li conduce in un’autentica immersione nell’arte di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ed è proprio scendendo quelle scale, accessibili solo al personale autorizzato, che si viene introdotti nel “dietro le quinte” del Met, fatto di corridoi lunghi e bianchi, illuminati di luce al neon, alle cui pareti campeggiano cartelli che invitano a “dare la precedenza all’arte”. Un invito che potrebbe sembrare, a un osservatore disattento, quasi un vezzo filosofico, ma il cui significato è in realtà letterale: attraverso quelle corsie transitano infatti opere d’arte dal valore quasi inestimabile, e le regole della strada dei meandri profondi del Met stabiliscono che, giustamente, la precedenza è sempre, in ogni caso, dei “works of art” e di chi li trasporta.
Percorrendo quelle corsie che nulla hanno a che fare con la magnificenza del museo, abbiamo avuto accesso, in un freddissimo pomeriggio di inizio gennaio, ai laboratori scientifici del Met. Un luogo che non ti aspetteresti mai di trovare nella dimora dell’arte per eccellenza. E invece, non solo esiste, ma ospita anche, come ogni laboratorio scientifico che si rispetti, strumentazioni all’avanguardia, potenti microscopi, tecnologie di ogni tipo, e tanti scienziati – 14 lo staff stabile, con cicliche incursioni di intern e fellow – che ogni giorno lavorano per scoprire o approfondire la verità materiale degli oggetti d’arte, a scopo di ricerca e di conservazione.
A capo di questi scienziati dell’arte c’è un italiano di Ivrea, Marco Leona, che quel prestigiosissimo dipartimento scientifico – tra i più avanzati degli Stati Uniti nel campo della ricerca sui beni culturali – l’ha fondato personalmente. Ci accoglie insieme a due sue dirette collaboratrici, Federica Pozzi e Elena Basso, anch’esse – come intuibile dai loro nomi – italiane: l’una lombarda, della provincia di Monza, l’altra piemontese, di San Germano Vercellese. E, per rendere ancora più patriottica l’atmosfera, ci offre un espresso, da macchinetta rigorosamente italiana. Così, ci introduce in un mondo che in pochi conoscono, nel quale chi scrive è inciampata accidentalmente solo grazie al talento di una sorella, la Federica nominata poche righe sopra, che otto anni fa, dopo una laurea e un dottorato di ricerca in Chimica all’Università Statale di Milano, fece i bagagli e salutò il piccolo paese brianzolo che le aveva dato i natali per realizzare il suo sogno. Un sogno, è il caso di dirlo, americano.
Il dottor Leona, ci spiega, è approdato nella land of opportunity per eccellenza – dopo una laurea in Chimica e un dottorato di ricerca in Mineralogia e Cristallografia all’Università degli Studi di Pavia – per vie traverse. “Abbiamo una discreta popolazione di italiani che si occupa di scienza e ricerca scientifica nel campo dei beni culturali. Sono stato uno dei primi ad arrivare, quando ancora il campo non era così sviluppato”. Tutto è iniziato con un postdoc all’università del Michigan, che lo introdusse in un settore ancora pionieristico, ma indubbiamente affascinante. “In università, in Italia, c’erano dei professori che si occupavano del restauro della Cappella Sistina”, ricorda, indicandoci un poster appeso alla parete alle sue spalle. E ci spiega: “È un ricordo dell’epoca, e in particolare di una conferenza tenuta dal professor Giacomo Chiari, quando ero studente a Pavia, che per me è stata una rivelazione”. Da lì, la ricerca di esperienze sempre nuove e stimolanti: “Visitando il Detroit Institute of Art, uno degli straordinari musei americani a cui manca, però, il supporto di filantropia che abbiamo qui a New York, ho scoperto che questo era un settore molto vivo in America: i musei avevano i loro laboratori, i loro scienziati, per studiare le opere d’arte”. Quindi, l'”illuminazione”: quello era l’ambito in cui avrebbe voluto lavorare. “Ho letteralmente chiamato ogni laboratorio. L’ultimo sulla lista, quello del Los Angeles County Museum of Art (LACMA), mi ha informato di una fellowship disponibile, che pagavano pochissimo. Un anno dopo mi sono trasferito lì”.
Quindi, dopo diversi spostamenti all’interno degli Stati Uniti, è approdato al Met, quello che – gli suggerisce con una battuta calcistica, in perfetto stile italiano, il nostro Direttore – è un po’ la “Juventus dei musei”, la squadra che vince sempre e in cui tutti vorrebbero giocare. Leona raccoglie volentieri la provocazione: “Non parliamo della Juventus: purtroppo sono “dell’altra squadra” (il Torino – ndr), anche se i miei figli giocano nella Juventus Academy New York”, ironizza. E prosegue, scherzando: “Un mio amico una volta mi disse: New York è l’unica città del mondo dove puoi crescere un bambino italiano, sperando che non diventi juventino”.
Battute a parte, per lui, trovare l’America ha significato scoprire “la chimica per il restauro e lo studio delle opere praticata all’interno dei musei”. Perché è proprio qui che si annida la principale differenza con l’Italia, patria dell’arte per eccellenza, i cui musei non dispongono, però, di laboratori scientifici. Nel Belpaese, che pure ha grandi e importantissime scuole di restauro, l’organizzazione dei beni culturali è tale per cui i musei si appoggiano alle università, a personale esterno o a contratto, o ai restauratori dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro a Roma e dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Negli Stati Uniti, invece, i musei non hanno bisogno di appaltare all’esterno la ricerca scientifica o la conservazione: “Sono leader nella ricerca sui beni culturali e nei restauri. I grandi musei hanno restauratori all’interno dell’organico e i più importanti, diciamo una dozzina, dispongono di laboratori scientifici”, ci spiega. C’è un caso solo in Italia, ci ricorda poi la dottoressa Basso – anche lei formatasi all’Università di Pavia, con una laurea in Scienze Geologiche e un dottorato di ricerca in Scienze della Terra -, in cui un museo ha al suo interno un laboratorio e dei restauratori, che pure si interfacciano molto più direttamente con l’ambiente accademico di quanto non avvenga negli Usa: si tratta del Museo del Violino a Cremona. Poi certo, ci sono i Musei Vaticani, che tuttavia sorgono sotto la giurisdizione della Città del Vaticano. “Quello che però abbiamo in Italia”, aggiunge Leona, “sono gruppi fortissimi nella ricerca per i beni culturali: questo è uno dei risultati di cui beneficiano gli Stati Uniti, che non possono vantare grandi scuole di scienziati per i beni culturali”. Non solo: in Italia “abbiamo ottimi candidati che concorrono per ottenere posizioni importanti negli Stati Uniti”. La formazione, insomma, resta un punto di forza del Belpaese, e “gli Stati Uniti possono assorbire ciò che l’Italia non assorbe”.
In effetti, la presenza di scienziati italiani in questo campo negli Stati Uniti non è affatto un’eccezione. Nello stesso dipartimento scientifico del Met, oltre ai nostri interlocutori, lavorano altri due scienziati italiani; Francesca Casadio è oggi direttrice della ricerca scientifica all’Art Institute di Chicago, e anche il J. Paul Getty Museum ha avuto a lungo un nostro connazionale, il professor Giacomo Chiari, a capo del dipartimento scientifico. E poi, spiega Leona, “c’è una grande ricchezza a livello di giovani”. Giovani che si sono formati in Italia, dotati di talento e buona preparazione. “Tento ovviamente di non effettuare alcuna preferenza sulla base della nazionalità, quando devo assumere qualcuno”, ironizza. E chiosa, tornando serio: “Tuttavia, abbiamo un grande numero di italiani che fanno domanda per le nostre posizioni e sono in genere tra i candidati più qualificati. Esiste certamente una grossa offerta di talento”.
Talento su cui l’Italia investe nell’ambito della formazione, ma che poi non valorizza. Il risultato, facciamo notare, è un enorme capitale umano andato perduto. Leona, che, insieme alle sue due giovani collaboratrici, non ama l’etichetta giornalistica del “cervello in fuga”, preferisce vederla in positivo: “In un certo senso, può essere una situazione da cui tutti traggono beneficio. I colleghi italiani che ci mandano studenti hanno davanti due strade: possono lamentarsi che poi questi studenti trovano lavoro da noi, oppure possono rallegrarsi per aver dato loro l’opportunità di introdursi in un mercato del lavoro in cui fioriranno e avranno successo. Le università italiane formano scienziati apprezzati in tutto il mondo: questo è un segno di merito”. Merito, ribattiamo, da cui l’Italia non ricava nulla. “Certo”, concede. Ma aggiunge, ricorrendo nuovamente alla metafora calcistica: “Se vedo che il Torino, la squadra a cui tengo, non ha i soldi per pagare i calciatori e questi cambiano squadra, non posso che accettarlo”. E poi chiarisce: “Quello che torna, secondo me, è un bonus intellettuale notevole. Il mondo è oggi sempre più interconnesso, e anche quello accademico lo è. E la ricchezza di networking con le università e con il mondo del lavoro del nostro Paese è certamente significativa”.
Una cosa è certa: incontrare italiani di una tale levatura in uno dei più grandi musei del mondo è fonte di orgoglio per noi, loro connazionali, e per l’intero Stivale. Italiani che potrebbero essere definiti scienziati del bello, necessari mediatori tra la tangibile materialità di un’opera d’arte, sempre bisognosa di cure e approfondimento, e il suo significato, per così dire, trascendente. “Quello che è sempre importante per me è trovare l’intersezione tra il bello – i suoi significati e le aspirazioni dell’artista – e i mezzi pratici”, spiega Leona. “Quello che mi muove è soprattutto verificare come artisti, artigiani e scienziati (perché tali erano gli artisti stessi nel mondo antico) sapessero cercare nella natura intorno a loro nuovi materiali e nuovi mezzi per esprimere la bellezza”. E aggiunge: “Ciò che maneggiamo ogni giorno è un bello che diventa fisico, materiale”.
Ma qual è, in concreto, la missione di questi scienziati del bello? Leona ce lo esemplifica parlando di un progetto lanciato da circa un anno, la “Network Initiative for Conservation Science”, NICS. Progetto che “nasce dalla consapevolezza che noi del Metropolitan Museum abbiamo la capacità logistica di fare molto: abbiamo il laboratorio più avanzato degli Stati Uniti e un corpus accademico di scienziati molto importante. Possiamo quindi rispondere a qualsiasi domanda”. Da qui, l’idea di mettere a disposizione strumentazioni, staff ed expertise anche a quei musei di New York che non dispongono di un laboratorio scientifico per analizzare le proprie opere a fini di ricerca o conservazione. Una iniziativa di cui Federica Pozzi è responsabile, alla quale lavora anche Elena Basso, e finanziata dalla Andrew W. Mellon Foundation. “C’è secondo me un aspetto di questo progetto che è molto italiano: se avessimo avuto paura di fallire, non avremmo costruito tutto ciò. Ci siamo quasi buttati senza farci spaventare dalle difficoltà logistiche, e questo è molto italiano”, riflette Leona.
Temerarietà, immaginazione e tanta voglia di lavorare sono state insomma le qualità necessarie per realizzare quello che, fino a poco più di 12 mesi fa, era ancora un sogno. 21 progetti di varie dimensioni, 94 opere d’arte analizzate, tutte le richieste pervenute da altri musei e istituzioni soddisfatte in un solo anno di lavoro: i presupposti sono ottimi. E tra i progetti di cui lo staff di Leona va più fiero, il primo da citare è quello che riguarda Carmen Herrera, artista cubano-americana ancora in vita di 102 anni, nato da una mostra organizzata nell’autunno 2016 al Whitney Museum of American Art. “I curatori della mostra hanno notato che l’artista ha classificato tutti i materiali pittorici da lei usati come acrilici. Questo ha suscitato dello stupore, perché le pitture acriliche sono state immesse sul mercato, in Europa, a partire dal 1963, ed esiste tutto un corpus di opere della fine degli anni Quaranta e dell’inizio degli anni Cinquanta – proprio il periodo parigino dell’artista – in cui la Herrera sosteneva di aver usato pitture di tipo acrilico”, ci spiega la dottoressa Pozzi. “Mettendoci in dialogo con i curatori, abbiamo selezionato 5 dipinti, datati tra il 1948 e il 1953, e abbiamo condotto le nostre analisi”. Com’è finita? Gli scienziati del Met hanno contribuito a riscrivere la storia dei materiali, perché gli studi hanno confermato che, almeno a partire dal 1949, Carmen Herrera utilizzava effettivamente degli acrilici per le sue apprezzatissime opere.
Ma le storie d’arte che le mura dei principali laboratori scientifici americani (non solo il Met) potrebbero raccontare sono davvero tante. La responsabile del NICS ricorda, ad esempio, quando, lavorando all’Art Institute di Chicago, contribuì a gettare nuova luce sull’aspetto originario di alcune opere della grande collezione di impressionisti di quel museo, verificando come le lacche che pittori del calibro di Monet o Renoir utilizzavano tendessero, con il tempo, a sbiadire se esposte alla luce: la versione attuale, insomma, è ben diversa da come dovesse apparire due secoli fa. “Ricordo il caso di un dipinto di Renoir, Madame Léon Clapisson, in cui abbiamo analizzato una lacca sbiadita che abbiamo scoperto essere composta di cocciniglia, colorante naturale usato anche come colorante alimentare. Abbiamo realizzato una riproduzione digitale di come dovesse apparire il dipinto in origine, sulla base delle nostre analisi scientifiche e dell’esame visivo dei conservatori. Da qui, è nata anche una mostra, la prima all’Art Institute focalizzata sui risultati delle analisi scientifiche”.
Per le mani dello staff scientifico del Met passano ogni giorno oggetti d’arte di grande valore storico e culturale. Tra questi, anche una serie di totem del 1800 conservati all’American Museum of Natural History, che hanno perso l’originaria policromia a causa di alcuni incidenti di cui sono stati vittime (tra cui incendi nelle gallerie), ma anche di interventi di restauro poco oculati. Oppure, le sculture in leghe metalliche esposte a Central Park, che la dottoressa Basso si sta occupando di analizzare in vista di interventi di restauro per la Central Park Conservancy. O ancora, alcuni quadri di Van Gogh conservati al Solomon R. Guggenheim Museum, sui quali il grosso dell’indagine riguarda le lacche sbiadite e le tecniche pittoriche utilizzate dall’artista.
Mentre Leona e le ricercatrici enumerano orgogliosi gli incredibili progetti di cui si sono occupati di recente, ci sorprendiamo a pensare che scienziati del bello come loro non potrebbero chiedere di più da un posto di lavoro. Ma se avessero la “lampada di Aladino”, che cosa desidererebbero per fare ancora meglio? “Io sono il loro capo, quindi devono stare attente a rispondere a questa domanda”, scherza Leona, riferendosi alle due scienziate. Ma poi torna subito serio. “Onestamente, l’America e i musei per me sono stati davvero proprio quello che ci si aspetta, una land of opportunity. Ovviamente”, prosegue, “siamo scienziati che lavorano in un museo. In un’università o in ambito industriale ci sono fondi, risorse, siamo sempre supportati: qui, ogni giorno, è una battaglia per portare avanti un programma di ricerca. Quindi”, aggiunge, “ci si potrebbe augurare che l’aspetto scientifico diventi importante quanto quello prettamente artistico-culturale”. Ma poi specifica: “Bisogna anche pensare che siamo un museo, quindi è normale che la priorità sia per l’arte, rispetto alla quale noi ricopriamo un ruolo di supporto. Resta il fatto che lavorare qui sia, per me, un privilegio enorme”. Con lui concordano le sue collaboratrici, che, quasi in coro, ci confessano di aver realizzato “il sogno di una vita”.
Un sogno che, è evidente, nel loro Paese d’origine – che pure ha fornito loro, generosamente, gli strumenti per sviluppare il proprio talento – non avrebbero potuto concretizzare. Dunque, sulla base di tale esperienza, che cosa consiglierebbero all’Italia, che rimane il più ricco e grande museo a cielo aperto del mondo? Leona individua un trend positivo non solo nella recente scelta di aprire a candidati internazionali le posizioni di direttori museali – scelta pure molto dibattuta e contestata dalla stessa Corte Costituzionale -, ma soprattutto nell’ultima iniziativa per incentivare la filantropia sui beni culturali, su modello americano: “Un cambiamento enorme è quello dell’art bonus, per cui nel codice fiscale italiano sarà per la prima volta possibile detrarre dall’imponibile i contributi dati a specifici progetti di restauro”. Dal punto di vista del talento, ribadisce, “in Italia ce n’è tantissimo”.
E se questi tre autorevoli connazionali dimostrano un qualche fastidio nell’essere etichettati con grande faciloneria come “cervelli in fuga”, quando chiediamo loro se tornerebbero in patria qualora fossero messi nelle condizioni di essere pionieri della ricerca scientifica nei musei del proprio Paese, sorridono come se questa domanda l’avessero già sentita tante volte. La prima a risponderci è la dottoressa Basso: “Da italiani, la tendenza è spesso quella di farsi frenare dagli impedimenti più che cogliere le opportunità. Indubbiamente, sarebbe un’occasione che andrebbe colta: essere pionieri in questo senso in Italia sarebbe certamente gratificante”. Anche Leona si mostra positivo: “L’Italia è un Paese meraviglioso in cui si può vivere benissimo, proprio in termini di quality of life”, constata. E prosegue: “Se si aprisse un’opportunità professionale interessante, a parità di condizioni o anche a condizioni un po’ meno agevoli, penso che qualsiasi italiano, ma anche qualsiasi americano, accetterebbe”. Ma è proprio su quel “se” che la dottoressa Pozzi avanza una punta di scetticismo: “Ripenso a cose che mi sono successe di recente. Spesso ricevo e-mail dall’Italia in cui mi si offrono contratti di 6 mesi al massimo”. Proposte, insomma, che non sembrano assicurare prospettive neppure lontanamente comparabili rispetto a quelle offertele fino ad ora negli Stati Uniti. Ed è in quel “se” che si annida, in ultima istanza, il ben noto, ma non per questo meno doloroso, dramma di un Paese che prepara professionisti destinati ad essere apprezzati e valorizzati in tutto il mondo, meno che in patria.
Eppure, quello su cui i nostri tre connazionali ci fanno riflettere è che c’è molto altro al di là della retorica del “cervello in fuga”. Una retorica spesso tanto inflazionata da diventare una banalizzazione appiattita di un problema complesso che pure esiste, e che spesso ci limitiamo a incasellare e ad accettare quasi anestetizzati, anziché impegnarci ad attivare la coscienza collettiva per risolverlo. Ad andarsene non sono solo “cervelli”, sono persone di talento con un vissuto, un bagaglio di esperienze, di legami, di relazioni, di nostalgie e di sogni. E chissà se, nei loro confronti, è legittimo parlare di “fuga”: nella scelta di partire non c’è necessariamente resa, ma soprattutto coraggio, entusiasmo, resilienza, voglia di cogliere un’opportunità e di realizzarsi al di là degli ostacoli. E nei loro spesso autorevoli curricula c’è la dimostrazione non solo di quello che all’Italia manca – aspetto che è sacrosanto denunciare, nella speranza che chi di dovere si assuma, una buona volta, la responsabilità di invertire la rotta -, ma anche quello che l’Italia offre: innanzitutto, un sistema di istruzione e specializzazione a basso costo, accessibile, se non a tutti, a molti, e che, nonostante le classifiche internazionali spesso non lo attestino e al di là delle innegabili criticità, rimane uno dei più efficaci nel mondo sviluppato. Certo, ciò che manca pesa, addolora, impensierisce. Ma forse, chissà, con la piena consapevolezza di quello che abbiamo, è più facile visualizzare ciò che potremmo, e dovremmo avere. E lottare per ottenerlo”. (aise)