"10 RIVERS, 1 OCEAN": IN BARCA, LUNGO FIUMI DI PLASTICA, PER MOSTRARE CHE NON C’È PLAN(ET) B – di Valentina Barresi

NEW YORK\ aise\ - L’italiano Alex Bellini partirà tra qualche settimana per la sua nuova missione "10 rivers, 1 ocean": navigherà i fiumi più inquinati al mondo fino all'isola di plastica nel Pacifico per risalire all'origine del problema inquinamento. Valentina Barresi lo ha intervistato per La Voce di New York, diretta da Stefano Vaccara. 

Riportiamo di seguito il testo integrale del lungo articolo.
"La maggior parte della gente vive in una miopia auto imposta, guardando solo al soddisfacimento di bisogni istantanei. Questo mi ha posto di fronte al dovere di impegnarmi a favore dell’ambiente, che per la prima volta nel corso della nostra vita sulla Terra ci sta chiedendo aiuto. Abbiamo avuto sempre la sensazione e la riprova che la natura potesse autoregolarsi, ma siamo così tanti, voraci e ignoranti che la sua capacità di autorigenerazione non è più possibile".
"Dopotutto, domani è un altro giorno!", per dirla alla Rossella O’Hara di Via col vento. Peccato che di giorni non ne rimangano poi molti sul calendario, almeno stando alle proiezioni degli esperti che da decenni ci mettono in guardia sullo stato di salute della nostra Madre Terra. E più che col vento, le nostre (cattive) azioni vengono trascinate via con le correnti dei fiumi, fino a depositarsi al centro di quel grande Oceano che ci unisce, specchio di un futuro imminente non troppo benevolo. A solcarne le acque in una nuova avventura ai limiti dell’estremo è l’esploratore valtellinese Alex Bellini che, a bordo di un’imbarcazione costruita interamente con materiali riciclati, navigherà i dieci fiumi più inquinati del pianeta, fino a spingersi lungo il Great Pacific Garbage Patch, isola da un milione e mezzo di chilometri quadrati di plastica, larga tre volte la Francia.
Otto dei dieci corsi d’acqua che Bellini attraverserà si trovano in Asia, due in Africa, mentre la mega isola di plastica, il più grande accumulo di rifiuti galleggiante del mondo (80 mila tonnellate per 1.800 miliardi di frammenti), si estende nell’Oceano Pacifico, fra Hawaii e California: la partenza è prevista fra meno di due mesi e l’avventuriero ha già lanciato il trailer di "10 rivers, 1 ocean". Seguendo simbolicamente il viaggio compiuto da una bottiglia di plastica, la missione punta a sensibilizzare l’umanità su un problema non più procrastinabile, il mancato rispetto per l’ambiente, pronto a presentarci il conto delle nostre malsane abitudini.
Esploratore, ma anche speaker motivazionale e performance coach, Alex Bellini nasce in un piccolo paese tra le Alpi e da lì parte alla scoperta degli ambienti più ostili del pianeta: fra le memorabili imprese che lo hanno visto protagonista, la Marathon des Sables nel 2001, corsa a tappe di 250 chilometri nel deserto del Sahara; la spedizione in Alaska che tra il 2002 e il 2003 lo ha portato a spingere una slitta in inverno per ben duemila chilometri. E ancora, il viaggio a remi in solitaria del 2005 attraverso Mar Mediterraneo e Oceano Atlantico e quello del 2008 lungo il Pacifico, dal Perù all’Australia. Nel 2017, armato di slitta e sci, Alex attraversa il Vatnajokull, il più grande ghiacciaio d’Europa, in Islanda. Al 2011 risale invece la sua maratona negli Stati Uniti: 5.300 chilometri in 70 giorni, da Los Angeles a New York, attraverso un Paese con il quale negli anni ha instaurato un legame davvero speciale, affascinato dalle sue contraddizioni e dalla complessità della vita al suo interno.
D. Alex, non sei nuovo a esperienze "estreme". Dove hai trovato ispirazione per questa tua imminente impresa?
R. Avendo attraversato due oceani, mi sono reso molto sensibile riguardo al delicato equilibrio su cui poggia il nostro pianeta: se da una parte cresceva in me il senso di cura e di rispetto dell’ambiente, proprio perché ho potuto vederlo sia nella sua veste più estrema sia in quella più vulnerabile, dall’altra non si può dire altrettanto per la maggior parte della gente che si incontra per strada, che vive in una condizione di miopia auto imposta, guardando solo al suo soddisfacimento di bisogni istantanei, senza porsi domande sul futuro – non quello imminente – ma quello spostato più in là. Questo mi ha molto ispirato, mi ha posto di fronte alla necessità, al dovere di impegnarmi a favore dell’ambiente, che per la prima volta nel corso della nostra vita sulla terra ci sta chiedendo aiuto. Non era mai successo prima, abbiamo avuto sempre la sensazione e la riprova che la natura potesse autoregolarsi, ma siamo così tanti, così voraci e così ignoranti che la sua capacità di autorigenerazione non è più possibile.
D. Nel video di presentazione di "10 rivers, 1 ocean" hai detto di volere andare verso l’origine del problema plastica: cosa intendi dimostrare in particolare?
R. S’intende andare ad esplorare il problema laddove ha origine, ossia sui fiumi. L’80 percento della plastica che oggi inquina i mari ha origine sui fiumi, quindi è come risalire la corrente, come per i salmoni che vanno a depositare le uova in cima al fiume. Intendo risvegliare lo spirito delle persone e ridefinire il concetto di "noi e loro", ossia il vecchio concetto in cui "noi" ci mettevamo dietro a un paravento e puntavamo il dito verso "loro". Perché ancora in molti considerano il problema della plastica come un problema lontano, addirittura c’è chi il Pacifico non sa dove sia, senza considerare la Cina, che sembra essere su un altro pianeta. Se il problema ha un’origine così lontana, allora vuol dire che riguarda un numero sempre più crescente di persone. Ecco il perché del nome "10 rivers, 1 ocean", perché non vale più la vecchia nomenclatura degli oceani, Atlantico, Pacifico o Indiano: siamo tutti quanti immersi in un unico grande oceano e quel che viene scaricato oggi nel mare della Cina o nel golfo del Bengala, domani o dopodomani, o magari tra un anno, lo ritroveremo sotto casa. E poi, c’è anche l’idea (questo mi sembra che stia entrando nella testa delle persone) che nessuno ci verrà a salvare, ma che dobbiamo salvarci da soli e ciò è confermato dal fatto che aumentano i progetti di tutela dell’ambiente a carattere locale, magari attivati da una singola persona che con la sua capacità di comunicare riesce a diffondere in maniera molto rapida il messaggio. L’umanità deve effettuare un cambiamento nell’atteggiamento mentale, adottare una nuova filosofia, perché quella vecchia della crescita a tutti i costi e del consumismo è evidentemente sbagliata, dobbiamo attivarci su più livelli, quello della narrativa, quello dell’educazione, dell’ispirazione, oltre ovviamente al livello scientifico: ognuno deve fare la propria parte per risvegliare lo spirito e ricreare un nuovo illuminismo.
D. Come ti stai equipaggiando? E come si articolerà il tuo viaggio? È un’avventura che richiederà ben tre anni in totale…
R. Mi sto concentrando nel definire nella maniera più potente possibile delle collaborazioni che diano a questa missione più capacità di comunicazione. Parlo di enti di conservazione della natura come il Wwf, MareVivo, One Ocean Foundation. Sto anche richiedendo il patrocinio del Ministero dell’Ambiente italiano, cercando di creare attorno a questo progetto le migliori condizioni affinché abbia un respiro più grande. Il viaggio si articolerà a tappe, una per ogni fiume. Rientrerò a casa alla conclusione di ogni singola tappa proprio perché, essendo la missione così lunga, devo necessariamente considerare gli altri miei ruoli, di genitore, marito, amico, figlio… non posso permettermi di stare lontano dagli affetti per tre anni e poi, forse, non sarebbe neanche giusto.
D. Il 2021 sarà l’anno della messa al bando dei prodotti di plastica usa e getta nell’Ue. Non così in molti altri Paesi nel resto del mondo, tra i principali inquinatori globali e spesso quasi del tutto sprovvisti di una cultura ecologista. Quale pensi possa essere l’approccio più efficace, in questi contesti, per sensibilizzare alla riduzione significativa del consumo dei prodotti in plastica, oltre che educare al loro corretto smaltimento? Penso a casi tra loro diversi, come ai Paesi in via di sviluppo dell’Asia, da un lato, e agli Stati Uniti, patria del consumismo per eccellenza nell’immaginario collettivo…
R. Sicuramente quello che possiamo fare noi da questa parte del mondo, la parte che gode di maggior salute e benessere, è dare il buon esempio. L’Europa e comunque il mondo occidentale hanno sempre fatto da capofila nell’acquisizione di nuove abitudini, sia buone sia cattive: in quest’ultimo caso mi viene da pensare alla diffusione del fast food, che una volta in Cina non esisteva e che oggi è stato importato ed è all’origine di problemi di salute di cui un tempo soffrivano solo gli americani. Questo è un esempio molto chiaro di come Oriente e Occidente si influenzino reciprocamente. C’è poi un aspetto molto interessante su cui riflettere: se nel 1972, al summit delle Nazioni Unite a Stoccolma, si disse che la povertà era la maggiore responsabile dell’inquinamento, oggigiorno è la ricchezza a essere la maggior responsabile, perciò c’è stata un’inversione. Se si pensa che i 3 milioni di americani più benestanti, che rappresentano l’1 per cento della popolazione statunitense, producono 318 tonnellate di anidride carbonica a testa ogni anno (contro una media mondiale di 6 tonnellate) si comprende come sia importante cambiare le abitudini dei ricchi, non dei poveri. In linea generale, si pensa che i Paesi in via di sviluppo siano anche i più menefreghisti dal punto di vista del consumo della plastica, ma è bene ricordare che non sempre è così, anzi: nella città di Nairobi, in Kenya, ad esempio, è stato completamente bandito da meno di un anno l’utilizzo dei sacchetti di plastica e chi commette infrazioni viene mandato in galera: un cambiamento decisamente rapido e radicale in un Paese povero, mentre in Inghilterra, dove io vivo, non è proprio così, non ancora purtroppo.
D. Nel tuo video dici che è necessario osservare il problema da lontano per vederlo nella sua gravità, ricordando che non esiste un Planet B. Questo vale più in generale anche per i cambiamenti climatici. Tuttavia in molti – anche tra i potenti della terra – continuano volutamente a ignorare questa verità. Tra loro, Donald Trump. Personalmente ritieni sia possibile scongiurare il punto di non ritorno al quale ormai siamo prossimi e su cui gli scienziati ci mettono in guardia da decenni? E in che misura possono incidere i singoli cittadini?
R. Come dicevo, sembra che si stia diffondendo la sensazione che nessuno ci verrà a salvare. E certamente non potrà essere Donald Trump, quindi è responsabilità di ognuno di noi fare la propria parte per portare questa grande navicella spaziale su rotte migliori. I potenti della terra continuano, secondo me volutamente, a ignorare la verità, perché la verità costa una montagna di soldi, senza i quali si metterebbe in ginocchio l’economia globale: se da domani si passasse a produrre energia da fonti rinnovabili e quindi si smettesse di raccogliere e di consumare petrolio, bisognerebbe considerare anche le cosiddette riserve bloccate, ossia quella porzione di riserve di petrolio che non verrebbero più estratte. E queste scorte di combustibili fossili lasciate e abbandonate nel terreno avrebbero delle conseguenze economiche: uno studio stima che il valore delle riserve potrebbe aggirarsi tra i 6 e 20 mila miliardi di dollari. Non ci certamente vuole un genio per capire che queste si potrebbero trasformare in maniera diretta in perdita per l’economia. Credo che i danni sarebbero catastrofici, quindi ci vuole anche una certa attenzione nel periodo e nella velocità di transazione tra un’economia e un’altra. Questo però non vuole giustificare la poca attenzione dei potenti della terra, che volutamente ignorano il problema. Studiando approfonditamente l’argomento ci si scontra con due tipi di persone: chi ha perso completamente le speranze e ha stabilito che la fine del genere umano è prossima, e chi ancora ha speranze nel cambiamento. Certo, bisogna agire urgentemente, non ci resta molto tempo. Ci sono rimasti dieci, forse vent’anni a disposizione. Oggi più che mai, i singoli cittadini possono però incidere, anche grazie all’avvento di internet, dei social network o comunque dell’idea che quello che fa una persona può essere potenzialmente visto e comunicato a 7 miliardi di persone. Non era mai successo prima: anche le singole attività, le singole gesta, il pensiero di qualcuno - basti citare l’intervento recente della ragazzina svedese al World Economic Forum di Davos (Greta Thunberg, ndr.), un evento impensabile 20 anni fa per una bambina della sua età – può essere condiviso con il resto del mondo.
D. Nell’era dei social, eventi o gesti estremi vengono postati in rete ogni giorno, anche col nobile scopo di sensibilizzare a temi che riguardano la collettività. Qualcuno, però, è del parere che questi atti eclatanti, pur nella loro forza comunicativa, non sortiscano effetti nel concreto, ma risentano dell’eccesso d’informazioni, dell’istantaneità e del clamore insiti nella natura stessa del mezzo. Qual è il tuo punto di vista? Credi davvero che possano incidere sulla coscienza degli spettatori-utenti e indurli a schiodarsi da schermo e tastiere?
R. Sono totalmente d’accordo, viviamo in un’epoca in cui l’informazione è twittata, in cui Donald Trump fa comunicati stampa in forma di cinguettii. Questo la dice lunga su come stia cambiando il modo di comunicare: ci troviamo in un’era in cui prevale il sensazionalismo, ma in cui l’informazione invecchia anche rapidissimamente. Guardando il bicchiere mezzo pieno, però, questa è anche l’epoca in cui un singolo uomo può essere ascoltato e osservato da miliardi di persone: questa è un’opportunità pazzesca, che va di pari passo col diffondersi in maniera globale di un senso di urgenza. Un problema che un tempo potevamo ignorare come quello della plastica oggi è sotto gli occhi di tutti: informazioni globalizzate permettono a tutti di sapere in modo immediato l’urgenza d’agire. E questo mix crea il trigger perfetto per cambiare le abitudini. Bisogna però assicurarsi che le persone abbiano le orecchie ben sintonizzate sull’argomento.
D. Gli Stati Uniti per te non sono affatto un territorio inesplorato. Già nel 2011, peraltro, avevi raccontato alla Voce di averli "attraversati di corsa", da Los Angeles a New York in 70 giorni. Adesso remerai verso il Great Pacific Garbage Patch: qual è il tuo rapporto con gli Usa, e più in generale con il continente americano, da esploratore e da atleta?
R. Ho ricordi bellissimi degli Stati Uniti e del continente americano, non solo perché ci "corsi attraverso" nel 2011, ma perché a fine anni Novanta ci vissi per alcuni mesi. Poi nel 2002-2003 visitai due volte l’Alaska trascinando una slitta d’inverno da Nome a Anchorage: un’esperienza cui sono legato da un grande affetto, il sentimento è molto forte, radicato nei miei ricordi. Credo non sia mai stato un luogo facile, attraversarli mi ha permesso di aprire gli occhi sulla complessità di vivere in un Paese così ampio, senza contare i problemi legati alle politiche con oggetto le minoranze: parlo di nativi americani che si trovano a vivere in zone desertiche e aree sempre più piccole, perché il governo sfrutta quello che c’è di buono, lasciando loro la parte meno produttiva. Nel mio viaggio in Alaska ho inoltre conosciuto luoghi estremi dove sopravvivere è veramente difficile. Sicuramente è un Paese con tante contraddizioni, ma forse è proprio questo che lo rende così bello e affascinante.
D. Al momento vivi in Inghilterra. Torni spesso in Italia? Cosa ti manca, cosa no del Belpaese?
R. Torno spesso in Italia, anche e soprattutto per lavoro. Mi manca la varietà di ecosistemi, dalla montagna al mare, il cielo terso in primavera, le grandi nevicate. Mi manca molto il cibo, al quale magari vivendo in Italia si presta poca attenzione e che si dà per scontato. Mi manca molto anche poter passeggiare per le città e non sentirmi una persona strana. Camminare per Milano la sera tardi è una delle cose più interessanti che ho fatto di recente. Ciò che non amo è forse un po’ di provincialismo, che del resto si ritrova un po’ anche in Inghilterra. Il senso di vivere in un posto piccolo in cui tutti quanti si conoscono, dove si ha poca attenzione e si tende spesso a ignorare quello che c’è fuori dai confini.
D. Sei uno sportivo e un avventuriero, hai anche messo nero su bianco questa tua passione per le esplorazioni divenuta un lavoro, dai libri al blog, e recentemente sei diventato un performance coach: qual è il tuo segreto, se ne hai uno, per arrivare sino in fondo a ogni tua piccola o grande scalata?
R. Non credo si possa parlare di segreto. Credo tuttavia ci siano alcuni elementi che bisogna tenere sempre in considerazione. Uno: non si può dare il meglio di sé, se non si ama alla follia ciò che si sta facendo, perché presto o tardi la salita sarà così dura che solo chi ama davvero quel che sta facendo potrà superarla. Un altro elemento fondamentale è mantenere anche nelle peggiori situazioni lo spirito leggero e un animo fiducioso, quindi avere fiducia in sé stessi e nel futuro. Se si perde questo, si perde l’energia d’agire nel presente. Ultimo, ma forse il primo elemento per importanza: bisogna sempre bilanciare adeguatamente lo spostare i propri limiti, prestare attenzione a spostarli sempre un pochettino più in là, ma non osare mai nulla di troppo. In poche parole, avere il senso del limite, che poi è quello che ci permette tutte le volte di tornare a casa". (aise)