IL “RAZZISMO PAUROSO” DEGLI ITALOAMERICANI: PERCHÉ SI È OSTILI AGLI EMIGRANTI DI OGGI – di Maria Elisa Altese

NEW YORK\ aise\ - “Quando siamo arrivati qui, i miei genitori sono andati a lavorare e non si sono mai lamentati. Invece ora arrivano e non sono soddisfatti, non vogliono integrarsi, semplicemente esigono. Questo non era il nostro Paese, siamo arrivati, abbiamo abbassato la testa e ci siamo adeguati. Invece, oggi vogliono che ci adattiamo noi a loro. Non funziona così. Vuoi rimanere in America? Lavora come tutti gli altri e smettila di lamentarti ed esigere”. A firmare questo articolo per la Voce di New York, quotidiano diretto nella Grande Mela da Stefano Vaccara, è Maria Elisa Altesa, con la collaborazione di Grace Russo Bullaro.
“Molti immigrati negli USA di varie etnie fanno una distinzione tra immigrazione positiva e negativa. Una frequente giustificazione è per esempio…, “noi italiani siamo venuti a lavorare. Oggi arrivano, non lavorano e si approfittano del sistema; e noi siamo quelli che ci rimettono”. Lo possiamo chiamare razzista questo sentimento?
Un tema da sempre molto discusso negli Stati Uniti è quello del razzismo. È una realtà talmente presente in questo paese a tal punto da essere utilizzata come “tattica politica”. Ma dobbiamo stare attenti a come usiamo questo termine, perché oggi tendiamo a confondere il razzismo, l’immigrazione, i pregiudizi, lo stereotipo e la xenofobia sotto un unico nucleo. Questo è un errore; perché esistono delle differenze e delle declinazioni. Tra le varie definizioni di razzismo, la più comune è questa: “Pregiudizio, discriminazione o antagonismo diretto contro qualcuno di una razza diversa basata sulla convinzione che la propria razza è superiore”.
Siamo di fronte ad un argomento talmente delicato e ampio che bisogna andare per passi. Quello che stiamo analizzando in questo articolo è capire se gli italo-americani sono in qualche modo “razzisti”. Chiaramente il nostro non è un approccio scientifico, esistono esperti che si occupano di tali analisi. Qui, il mio obiettivo è quello di costruire una visione aneddotica basata sulla “percezione popolare”.
Ho iniziato attraverso un lavoro d’indagine, ho camminato per le strade di New York, sono entrata in diversi supermercati, caffetterie, bar e locali, dove lavorano italiani o cui proprietari sono di origine italiana. Ho camminato da un quartiere all’altro per diversi giorni, persino settimane, partendo da Manhattan, per poi allontanarmi gradualmente dal centro fino a raggiungere la fine di Long Island. Essendo io stessa italo-americana, ho addirittura coinvolto amici e parenti in questa ricerca.
Indipendentemente dal fatto che li conoscessi o meno, ho fatto a tutti la stessa domanda deliberatamente provocatoria: “C’è una percezione che gli italo-americani, che hanno gravemente sofferto di prima mano il razzismo e la discriminazione, sembrano provare ciò che possiamo definire genericamente come sentimenti razzisti contro gli ultimi ‘immigrati’. Credi che questa sia un’affermazione vera?”.
Tutti hanno reagito in modo diverso: c’è chi esitava a rispondere, chi rispondeva in modo “superficiale” o ironico, chi rivelava la sua verità e opinione, e anche chi si sentiva offeso o preferiva non dire nulla. Ho preso in considerazione ogni risposta, tenendo conto di due criteri: età e livello di istruzione. La mia sensazione, alla fine, è che ci sono vari livelli di “razzismo” e discriminazione, ma tutte fondate su un principio comune: la paura. Sono convinta che la paura, nel tempo, possa portare a atteggiamenti e sentimenti di sfiducia e, nel peggiore dei casi, di violenza. Sulla base dei diversi commenti e delle paure che mi sono state rivelate, ho concluso che ci sono tre motivi che spingono la maggioranza degli italo-americani a discriminare: la minaccia culturale, la percezione del “diverso” e la sfiducia nelle istituzioni.
Minaccia culturale
In generale, le persone con un livello di istruzione più basso sono quelle più diffidenti, quando si tratta di confrontarsi o entrare in contatto con qualcosa o qualcuno “diverso”.
La maggior parte degli italo-americani arrivati in questo Paese nella grande ondata immigratoria, dalla fine del 19°secolo agli anni ’50, erano per la maggior parte operai senza un’educazione avanzata. Ciò significa che una volta arrivati nella “terra dei sogni” (come la chiamavano loro), si sono adattati e accontentati di lavorare ovunque: l’importante era essere in grado di guadagnare denaro e vivere decentemente.
Possiamo affermare con sicurezza che le persone in questa condizione precaria si sentono culturalmente minacciate quando si trovano in un ambiente non familiare. Questo può essere causato dalla paura di perdere contatto con le proprie radici, la loro lingua, i loro costumi, in una terra straniera. Frank, 74 anni, italo-americano di origine pugliese, ma residente a New York da 52 anni, ritiene che la soluzione sia “restare con chi è uguale a te”. La sua affermazione può essere interpretata come razzista, ma in realtà non lo è: il razzismo indica una persona che crede di essere al di sopra di un altro gruppo etnico e culturale. In questo caso non c’è un sentimento di superiorità ma piuttosto di “difesa” delle proprie tradizioni, valori e cultura. Proteggere questo patrimonio significa mantenere un legame con la propria terra d’origine: l’Italia, e assicurarsi che anche i loro figli mantengano quel rapporto. La paura di “mischiarsi” è la paura di perdere l’italianità che vive in loro.
Emigrati italiani nei primi del Novecento
La paura dell’integrazione, di aprirsi a culture diverse dalla propria, porta un gruppo etnico a rimanere con “chi è come loro” in riferimento ad amicizie, matrimoni e quartieri. Il quartiere è fondamentale perché diventa la rappresentazione visiva della loro identità etnica. “Compravamo case dove c’erano italiani. Quando il quartiere cambiava, le persone vendevano e si trasferivano” confessa l’ottantunenne Giuseppina, nata in Sicilia e residente negli Stati Uniti da oltre 60 anni. Alla mia domanda sulla ragione del trasferimento, lei risponde semplicemente che, “Sai, si voleva stare dove c’erano tutti italiani, perché avevamo gli stessi valori e la stessa mentalità. La casa la curavano in un certo modo. Ci sentivamo rassicurati, nonostante fossimo lontani dall’Italia, non eravamo soli”.
Percezione del “diverso” oggi
L’immigrazione è un tema di attualità, non esiste oggi un telegiornale o un giornale che non parla e non affronta quotidianamente questa questione. I politici utilizzano la questione come tattica politica, con il risultato che il Paese è profondamente e amaramente diviso sulla questione, rivelando la realtà xenofoba presente sul territorio. La xenofobia, o la paura dell’estraneo, dello straniero, non è un fenomeno nuovo, è sempre esistito.
Tuttavia, possiamo affermare con sicurezza che l’11 settembre, 2001 si è rivelato un momento determinante in questo paese. Anche se non è stato il primo attacco terroristico di dimensioni rilevanti all’interno del territorio americano – quell’onore va a Timothy McVeigh che ha bombardato l’edificio federale Alfred P. Murrah a Oklahoma City nel 1995 – 9/11 è stato perpetrato da “stranieri” e le conseguenze sono cadute su tutti coloro che sono percepiti come “immigrati”. Ha avuto un forte impatto emotivo, causando una percezione negativa dell’immigrazione in generale e, di conseguenza, un rifiuto collettivo del fenomeno migratorio a prescindere dalla sua origine. Questa reazione può essere infondata, perché gli immigrati non sono tutti terroristi, ma è una paura che può essere comprensibile se consideriamo tre aree: giornalismo, social media e nazionalismo americano.
I media mostrano costantemente immagini e video di centinaia, se non migliaia di persone provenienti dall’America centrale e meridionale, che fuggono da condizioni pericolose nei loro paesi per trovare sicurezza negli Stati Uniti. Ciò provoca sentimenti di paura nei confronti dei “nuovi immigrati” perché si ritiene che gli ultimi arrivi porteranno pericolo e danno ai “vecchi immigrati”. Alcuni italo-americani rispondono a questa minaccia percepita ricordando che “per anni, attraverso il duro lavoro, si sono costruiti un futuro imparando a integrarsi laddove possibile, pur cercando sempre di mantenere fede l’italianismo che vive in loro” (Stefania, 47 anni, originaria della Campania, vive a New York da 42 anni). Ovviamente non possiamo generalizzare, ma basandomi su alcune delle risposte che ho ricevuto, direi che gli italo-americani di oggi, indipendentemente dall’età e dal livello di istruzione, sembrano aver interiorizzato buona parte del sentimento nazionalista, perché anche se possono essere ancora italiani nel cuore, considerano l’America come la loro casa.
Incapacità si assimilare
Con queste percezioni ostili del fenomeno migratorio (c’è anche chi la definisce come “invasione”) provengono atteggiamenti poco o per nulla tolleranti: da un lato troviamo la causa della minaccia culturale e la paura del diverso; dall’altro, c’è il timore che i “nuovi immigrati” possano mettere a repentaglio le condizioni sociali ed economiche dei “vecchi” immigrati. I vecchi modelli di immigrazione richiedevano che si assimilassero alla cultura ospite. Che diventano parte del crogiolo. Gli italo-americani arrivati negli Stati Uniti volevano mantenere un legame con le loro origini, ma allo stesso modo volevano integrarsi senza trarre vantaggio dal sistema. Oggi non è più così. Gli immigrati non sono più costretti ad integrarsi; generalmente resistono al crogiolo e grazie alla prevalenza di viaggi e tecnologia, mantengono legami molto stretti con il loro paese d’origine; mentre per le generazioni precedenti, l’immigrazione spesso significava esilio permanente e perdita di radici.
Italoamericani per il Columbus Day
Un abuso del sistema
Molti accusano gli italo-americani, loro stessi vittime di molte discriminazioni nella loro storia – compresa quella di essere linciati – di avere una “cattiva memoria”, di dimenticare che anche loro erano una volta immigrati.
Molti immigrati di varie etnie fanno una distinzione tra immigrazione positiva e negativa. Una frequente giustificazione è per esempio il commento di Michele, 65 anni, originario di Roma, che afferma che “noi italiani siamo venuti a lavorare. Oggi arrivano, non lavorano e si approfittano del sistema; e noi siamo quelli che ci rimettono”. Vincenzo, 56 anni, nato in Calabria e cresciuto nel quartiere di Knickerbocker a New York, sembra d’accordo: “Quando siamo arrivati qui, i miei genitori sono andati a lavorare e non si sono mai lamentati. Invece ora arrivano e non sono soddisfatti, non vogliono integrarsi, semplicemente esigono. Questo non era il nostro Paese, siamo arrivati, abbiamo abbassato la testa bassa e ci siamo adeguati. Invece, oggi vogliono che ci adattiamo noi a loro. Non funziona così. Vuoi rimanere in America? Lavora come tutti gli altri e smettila di lamentarti ed esigere”.
Correttezza politica e sfiducia nei confronti del governo
Ho parlato con diversi giovani nati a New York ma che provengono da famiglie di immigrati, mi hanno raccontato un po’ delle loro idee e delle loro paure. Ho trascorso il mio tempo con molti di loro, parlando e ascoltando quello che avevano da dire. Ho chiacchierato con Alberto e Teresa, rispettivamente di 28 e 21 anni, nati a New York, figli e nipoti di immigrati italo-americani. Alberto mi dice che “A volte è difficile e pericoloso avere un’opinione in America. Se cerchi di spiegare che non sei contrario all’immigrazione, ma contro coloro che arrivano e che non vogliono rispettare le nostre leggi, e vogliono le cose a modo loro; immediatamente sei classificato come razzista e possono persino trovare il modo di farti causa. Cercano di trovare scappatoie per trarre vantaggio, e questo a mio parere peggiora la situazione”.
Teresa, d’altro canto, mi parla di Welfare. “Molti immigrati clandestini hanno accesso a programmi di assistenza sociale (Welfare) nel paese. Questo è un fatto. Nessuno ha dato niente a mio nonno. E non ha preteso nulla. Ha guadagnato il suo posto in America con il duro lavoro. Ma se tutto viene concesso a queste persone, pensi che inizieranno a lavorare? So che non tutti sono così, ma molti lo sono. Approfittano del sistema, quindi la spesa pubblica aumenta e noi “legali” siamo quelli a pagarne le conseguenze”. L’idea che i nuovi immigrati siano freeloaders comporta anche una sfiducia nei confronti del governo. “Loro (i nuovi immigrati) tolgono a noi (vecchi immigrati), perché la classe politica non è in grado di gestire senza arrecare danno a coloro che già vivono qui”. È così che l’idea che l’immigrazione sia una minaccia ingestibile si è lentamente insinuata e ha preso potere.
La sfiducia che oggi si riscontra nel governo è una realtà quotidiana che impedisce le persone di rispecchiarsi ed entrare in empatia l’un con l’altro.
Siamo gettati in conflitto con il “diverso” attraverso un sottile gioco di manipolazione politica il cui obiettivo è usare la paura come arma per distrarre da una semplice verità: più incolpiamo l’”estraneo” per i nostri problemi, meno siamo in grado di unirci contro coloro che sono veramente responsabili: i leader politici che, indipendentemente dal fatto che siano democratici o repubblicani, agiscono nel loro stesso interesse”. (aise)