L’ACCADEMIA DELLA CRUSCA A FRANCOFORTE

FRANCOFORTE\ aise\ - Lunedì e martedì 28 e 29 gennaio l’Accademia della Crusca con il suo presidente, Professor Claudio Marazzini, sarà a Francoforte.
In un incontro aperto al pubblico - nella sala Europa del Consolato Generale d’Italia - la sera del 28 il professor Marazzini presenterà il suo ultimo libro “L’italiano è meraviglioso” (Rizzoli, 2018), mentre martedì alle 12:00 terrà - su invito delle professoresse ordinarie di linguistica e letteratura italiana Cecilio Poletto e Christine Ott - una lectio magistralis presso l’Università Johann Wolfgang Goethe di Francoforte (Seminarhaus Aula 5.105) dal titolo: “Il posto dell’italiano. Come collocare in Europa una grande lingua di cultura”.
Il professor Marazzini ha rilasciato per la rubrica “Anteprima”, curata da Michele Santoriello, un’intervista, rispondendo a cinque domande pensate per gli amici tedeschi ed italiani. La riportiamo di seguito.
“Buongiorno Professor Marazzini, il 28 gennaio verrà al Consolato Generale di Francoforte per presentare il suo nuovo libro “L’italiano è meraviglioso – Come è perché dobbiamo salvare la nostra lingua” (Rizzoli, 2018), mentre il giorno dopo sarà all’Università J. W. Goethe per una conferenza - sempre sul ruolo dell’italiano in Europa - ai giovani studenti di italianistica. Un incontro-confronto, quello di lunedì sera, aperto al pubblico proprio per parlare e riflettere sulle caratteristiche dell’italiano - un idioma caratterizzato da una storia particolare rispetto alle altre lingue d’Europa – una lingua che porta con sé passionalità, tensioni antiche e nuove, oltre a dubbi linguistici e curiosità. Gli amici tedeschi ed italiani desiderano sapere in ANTEPRIMA qualcosa dell’ospite. Se Lei è d’accordo vorrei proporle 5 domande perché possa incuriosire le nostre lettrici e i nostri lettori, prima di averli con noi all’evento culturale. Iniziamo?
D. Lei è da quattro anni Presidente di un’istituzione che ha come compito istituzionale “quello di sostenere la lingua italiana nel suo valore storico di fondamento dell’unità nazionale”: come si potrebbe spiegare ad un ragazzo delle scuole superiori o uno studente italo-tedesco la vivacità, l’attualità e la vicinanza di questa istituzione alle giovani generazioni di italiani nati e cresciuti in un paese europeo?
R. Credo che tale spiegazione possa essere oggi più facile di un tempo. Solo pochi anni fa, l’Italia esportava manodopera generica, lavoratori che si impegnavano nei lavori manuali. Costoro avevano lasciato un paese arretrato, in cui il confronto con le nazioni industrializzate d’Europa mostrava uno svantaggio. La lingua di molti emigrati era il dialetto. Oggi partono dall’Italia laureati e specializzati. In qualche misura, da un certo punto di vista, si può dire che la situazione sia anche peggiore: infatti non si capisce quale sia il vantaggio di investire grandi quantità di denaro nella formazione, per poi regalare il prodotto di questo costoso processo alle altre nazioni. Però, di fatto, le persone che lasciano l’Italia hanno una cultura solida, una specializzazione alta. Esportiamo anche professori universitari e ricercatori. Costoro dovrebbero sentire il patrimonio linguistico nazionale come cosa propria. Certamente il loro bagaglio non è costituito solo, come un tempo, dal dialetto della regione d’origine.
D. La lingua definisce e costruisce una società, la cultura, l’identità, le abitudini e le aspirazioni di un paese. Si assiste ormai da decenni in Italia – diversamente che in Germania - ad un “depotenziamento” dell’italiano come lingua nazionale e una contrapposizione-rivalutazione del dialetto e dell’italiano regionale (si pensi per quest’ultimo al cinema e alla televisione) a scapito dell’italiano. Sono contrapposizioni cercate ad arte - anche per scarsa conoscenza dei fenomeni storici e linguistici del nostro paese – o è un pericolo attuale per la lingua nazionale?
R. Io credo che un pericolo incomba. L’anno scorso, dopo il World Economic Forum di Davos, sollevai un lamento su di una questione descritta anche nel mio libro edito da Rizzoli. A Davos si radunano i potenti della Terra per parlare del futuro del Pianeta. Tra questi potenti c’era anche il presidente del Consiglio italiano, Paolo Gentiloni, che parlò solo in inglese. L’inglese di Gentiloni è risultato più che dignitoso, tuttavia la lingua italiana non si è mai sentita, anche se a parlare era il presidente del Consiglio della Repubblica italiana. Evidentemente egli riteneva che in quell’occasione l’italiano fosse inutile, anche se stava parlando in una nazione, la Svizzera, in cui l’italiano è lingua nazionale e ufficiale. Non tutti fanno così. La rappresentante della Germania, Angela Merkel, parlò in tedesco. Il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, intervenne in inglese, ma poi passò al francese (anche il francese, come il tedesco, è una delle lingue nazionali e ufficiali nella Repubblica elvetica). Pochi giorni fa, Conte, ahimè, ha compiuto a Davos 2019 la stessa scelta di Gentiloni. Si noti che la Cancelliera tedesca ha usato nuovamente il tedesco, e Bolsonaro ha usato il portoghese. Macron era assente, e dunque non possiamo parlare delle sue scelte linguistiche.
D. L’italiano viene parlato da poco più di 60 milioni di parlanti (anche se ci sono circa 50 milioni di oriundi), una piccola percentuale rispetto alle altre lingue, quali l’inglese, lo spagnolo, il cinese. Qual è quindi il ruolo e il posto nel futuro dell’italiano nel mondo?
R. Appunto: se gli italiani stessi, in circostanze ufficiali, mettono da parte la propria lingua e ne usano un’altra, è difficile pensare che l’obiettiva condizione di debolezza dell’italiano trovi un correttivo, o si manifestino forme di resistenza all’emarginazione. Chi dovrebbe prestarci soccorso, se noi stessi sembriamo convinti che non esista un ruolo internazionale per la nostra lingua? Non è un caso, infatti, che il soccorso maggiore ci venga dall’estero, cioè dal Vaticano. La lingua italiana è la lingua dei papi, siano essi nati in Germania o in America latina. Per fortuna la Chiesa non dà segni di abbracciare l’inglese internazionale come propria lingua, e non usa sempre il latino. Dobbiamo essere grati alla Chiesa di Roma per questa scelta, che giova molto all’interesse internazionale per l’idioma italiano.
D. Forestierismi, anglismi versus italianismi: una partita in cui la lingua italiana quasi sempre ci rimette? O è possibile per questo nostra meravigliosa lingua far riscoprire - e quindi esercitare - ancora il suo “fascino” come lingua di cultura?
R. Certamente l’italiano esercita un fascino come lingua di cultura, non solo al livello più elevato, tra gli studiosi del Rinascimento, tra i cultori della lirica, tra gli appassionati di archeologia, tra coloro che amano Dante. L’italiano è lingua del turismo culturale, del turismo enogastronomico, del turismo che cerca le bellezze del paesaggio mediterraneo. Però occorre valorizzare tutti questi beni utilizzando la lingua italiana, non cancellandola. In passato, un Ministero italiano ha cercato di promuovere il Made in Italy culinario con un marchietto commerciale che recitava “Italian taste”. Era quasi una ripresa involontaria e grottesca dell’“Italian sounding”, che in Germana dovreste conoscere molto bene, dopo le varie polemiche sul “parmisan”. Gli industriali sono spesso convinti che si debba difendere l’immagine del prodotto italiano. Però credono che la difesa riesca meglio eliminando la nostra lingua. Credo che questo sia un errore grossolano.
D. Da Galileo Galilei a Enrico Fermi la scienza in Italia ha utilizzato l’italiano come lingua per scrivere e parlare, anche al pubblico, di temi scientifici. Ora si privilegia l’inglese tra gli addetti ai lavori della “scienze dure” e non solo (si pensi a tutti i settori degli studi economici) anche per la divulgazione: è una tendenza inarrestabile, un’esigenza o un vezzo del mondo accademico e scientifico?
R. Se ci riferiamo al campo della ricerca e della comunicazione internazionale, dobbiamo purtroppo ammettere che la partita è ormai vinta dall’inglese, e che si è costretti ad accettare l’egemonia di questa lingua. Purtroppo, però, anziché accettare la necessità dell’inglese là dove esso esercita di fatto il suo potere indiscusso, molti esponenti della comunità scientifica diventano più realisti del re, e si danno da fare per eliminare l’italiano là dove invece starebbe benissimo al suo posto. Per esempio, ciò accade quando si sceglie deliberatamente di eliminare l’italiano da certi corsi universitari italiani. La didattica non è la ricerca. La confusione tra queste due forme diverse di comunicazione produce danni gravi alla lingua. C’è chi vorrebbe privilegiare l’inglese anche nei settori umanistici in cui detiene ancora un saldo primato. Le pare che si possa studiare il Rinascimento italiano senza conoscere l’italiano e il latino? Eppure c’è chi vorrebbe tenere corsi solo in inglese anche su questa materia. Ovviamente siamo di fronte a un eccesso di anglofilia”. (aise)