BREXIT, UN BAMBINO, LA PANDEMIA E IL CONTAGIO: IL PRIMO ANNO DI BORIS JOHNSON DA PREMIER – di Mariaelena Agostini

LONDRA\ aise\ - ““È più probabile che mi reincarni in un’oliva, che diventi primo ministro”. Parola di Boris Johnson, ai tempi ancora lontani dall’idea che qualche anno dopo sarebbe diventato il nuovo inquilino del numero 10 di Downing Street. Domani, 24 luglio, sarà esattamente un anno dall’inizio del suo mandato come primo ministro britannico. Il premier nel frattempo non si sarà reincarnato in un’oliva, ma ha avuto un primo anno sicuramente molto intenso”. A ripercorrerlo oggi è Mariaelena Agostini per “LondraItalia.com”, quotidiano online diretto da Francesco Ragni.
“In soli dodici mesi, Johnson ha dovuto fare i conti con elezioni anticipate, la Brexit, un divorzio, un nuovo fidanzamento e l’arrivo di un nuovo figlio (il sesto). Un mandato, il suo, inevitabilmente definito dalla gestione molto dubbia della emergenza del coronavirus tanto da rimanere contagiato lui stesso, che ha fatto sprofondare il suo paese nella peggior crisi sanitaria dai tempi della seconda guerra mondiale (e i cui effetti il premier li ha subiti anche letteralmente sulla propria pelle).
Ma andiamo con ordine. Quando, nel luglio 2019, il 24, Boris Johnson succede a Theresa May, fa della Brexit la sua missione politica e si presenta subito come “il premier che darà ai cittadini quello che vogliono: uscire dall’Unione Europea”. Nel suo primo discorso da leader del paese, ribadisce la sua determinazione nel voler portare il paese fuori dall’Ue entro la scadenza del 31 ottobre 2019 “senza se e senza ma”.
Ma la missione è più dura del previsto. Di fronte all’ipotesi di un rinvio della data di uscita, il neoeletto PM dichiara: “meglio morto in un fosso”. Arriva addirittura a chiedere la chiusura forzata delle attività parlamentari per cinque settimane, in una mossa considerata dalle opposizioni un bavaglio per coloro che volevano fermare il No Deal e che verrà successivamente dichiarata “illegale” dai giudici della Corte Suprema.
Con lo spettro di un’uscita senza accordo sempre più concreto e un’impasse parlamentare che non gli consente di far sì che il suo accordo di uscita venga approvato, Boris Johnson accetta riluttante lo spostamento della data della Brexit al 31 gennaio e chiede ufficialmente le elezioni anticipate a dicembre. Per il paese sono le prime elezioni nel periodo pre-natalizio dal 1923.
Dopo una campagna elettorale a suon dello slogan “Get Brexit Done” (facciamo la Brexit), il partito conservatore di Johnson stravince le elezioni generali, ottenendo finalmente la maggioranza assoluta necessaria per portare a compimento la Brexit entro fine gennaio. Una sfida che fino a pochi mesi pareva impossibile, specialmente dopo i numerosi tentativi da parte della predecessora Theresa May di far approvare il suo accordo di uscita al Parlamento britannico.
Al trionfo elettorale segue la lieta novella: Boris Johnson e la fidanzata Carrie Symonds annunciano che sono pronti per sposarsi. Lei è inoltre incinta del loro primo figlio. Poche settimane dopo, il premier ufficializza anche il divorzio dalla seconda moglie Marina Wheeler, madre di quattro dei suoi sei figli.
Ma a febbraio arriva l’imprevedibile, persino per Johnson: il coronavirus dalla Cina si espande a macchia d’olio nel resto del mondo, colpisce prima la Francia e poi l’Italia e via via il resto dell’Europa. Mentre gli altri governi prendono misure sempre più drastiche e annunciano la quarantena ad inizio mese, il Regno Unito dichiarerà ufficialmente il lockdown solo il 23 marzo, tra le critiche dei medici per non aver “sfruttato” le settimane di “vantaggio” sugli altri paesi ed aver così evitato molti più morti e contagi. La Gran Bretagna diventerà di lì a poco il paese con il maggior numero di morti in Europa, oltre 45.000.
Ad aprile, la malattia: il coronavirus colpisce anche lo stesso Johnson, il primo leader mondiale ad essere ricoverato in terapia intensiva per il covid-19. Dimesso il giorno di Pasqua, il premier loda i medici che gli hanno salvato la vita e promette più finanziamenti al servizio sanitario nazionale, da anni colpito da tagli ingenti da parte del partito conservatore.
Alle critiche sulla gestione confusionaria delle misure di lockdown si aggiunge il caso di Dominic Cummings. Il principale consigliere e “braccio destro” di Johnson viene trovato colpevole di aver violato le regole restrittive imposte dal suo stesso governo perchè aveva viaggiato con la sua famiglia attraverso l’Inghilterra e poi in visita ai genitori, pur mostrando sintomi di coronavirus. Sempre difeso a spada tratta da Johnson, Cummings non si dimette.
Archiviato quest’ultimo, spinoso capitolo e diminuiti i contagi, Boris Johnson mantiene la sua promessa e annuncia 3 miliardi di sterline di finanziamenti all’NHS, mentre oggi auspica un ritorno alla normalità in tempo per Natale.
Ad un anno dall’inizio del suo mandato, Boris Johnson non può più sperare di essere ricordato solo per il premier che ha portato a compimento alla Brexit. Il suo nome resterà inevitabilmente legato a quello della pandemia, alla gestione del lockdown e di una crisi che accompagnerà il suo paese per molti altri mesi a venire”. (aise)