DA IPPOCRATE A ULISSE: INTERVISTA AD ADRIANO GASPERI – di Stefania Del Monte

ROMA\ aise\ - “Sessantottino nella sua essenza più profonda, medico e bio-ingegnere, poeta e giramondo, da diversi anni Adriano Gasperi è basato alle Isole Canarie ma non rinuncia alla continua scoperta di nuovi luoghi e alle lunghe camminate. Lo abbiamo incontrato per parlare della sua affascinante esperienza internazionale ma anche di libri, poesia, viaggi e tanto altro”. Ad intervistarlo è stata Stefania Del Monte per “CiaoMagazine”, piattaforma globale da lei fondata e diretta.
D. Dott. Gasperi, è nato a La Spezia e si è laureato in Medicina a Pavia, conseguendo poi due specializzazioni in Anestesia e Rianimazione e Tecnologie biomediche. Immediatamente, ha iniziato a girare il mondo come medico. Cosa l’ha spinta a fare questa scelta?
R. Il caso e la necessità. Il caso fu un accordo di cooperazione tra l’Università di Pavia e l’Università di Makerere a Kampala, la Capitale dell’Uganda di Idi Amin Dada, promosso dai professori Antonio Fornari e Mario Cherubino, rispettivamente Rettore e Preside della Facoltà di Medicina al tempo. Durante un viaggio a Kampala, s’impegnarono a fornire una squadra di medici per “rianimare” l’Ospedale Universitario di Mulago, a corto di personale qualificato (il presidente Amin aveva da poco cacciato dal Paese commercianti e professionisti asiatici, molti dei quali insegnavano all’università). Al conto finale mancava un anestesista rianimatore di esperienza, merce rara anche a quel tempo, e dunque il Rettore, ricordandosi di uno studente che pochi anni prima era andato fino a Mosca per preparare la tesi, mi chiamò e così decisi di partire. Anzi, partimmo in due, perché anche mia moglie era anestesista. Avevamo entrambi 28 anni e partimmo con un figlio di poco più di un anno, senza la benedizione dei genitori!
La necessità. Allora non potevo ancora saperlo (anche se qualche prodromo si era manifestato, come ad esempio scegliere i Laboratori di fisiologia applicata alla Rianimazione del Prof. Negovsky, per condurre una ricerca che sarebbe diventata la mia tesi di laurea) ma, in effetti, una continua necessità di dedicarmi “ad altro” quando un progetto si stava per compiere, è stata una delle caratteristiche basiche del mio vivere. Proprio per questo, gli amici mi chiamano Ulisse…
D. Ha speso i primi anni di professione tra Italia e Africa, lavorando in Uganda e Mozambico. Dal 1986, si è poi dedicato al coordinamento di due programmi di cooperazione sociosanitaria finanziati dal governo italiano, rispettivamente in Egitto e Somalia. Ci può raccontare la “sua” Africa? Quali valori le hanno trasmesso questi luoghi e quali insegnamenti ha tratto dalla loro cultura?
R. Difficile parlare di una sola Africa. Ho trascorso dieci anni in tre paesi: Uganda, Mozambico e Somalia. Tre esperienze differenti, in paesi culturalmente distanti, con alle spalle storie coloniali che ancora mantenevano tratti identificativi, nonostante l’instabilità di quegli anni, caratterizzati da guerre e rivoluzioni. Indubbiamente, l’esperienza in Uganda fu la più complessa e formativa: passare dal comodo nido della Rianimazione I del San Matteo al mettere in piedi un reparto che in circa due anni ha trattato oltre 500 pazienti, fu una sfida entusiasmante, vinta grazie al sostegno di un piccolo gruppo di medici e infermieri che mi accompagnarono nel sogno. Kytio, Kasuggya, Kasamba, sono nomi e volti che non dimenticherò, al pari di momenti destinati a entrare nella storia, come l’azione israeliana contro un gruppo terrorista arabo all’aeroporto di Entebbe, dopo un dirottamento. Azione che per me valse 36 ore di fila in sala operatoria.
Del Mozambico ricordo la rassegnazione lusitana innestata su una povertà atavica, aggravata da una guerra civile aizzata dai vicini sudafricani. E la difficoltà degli approvvigionamenti, nonostante le maratone oratorie di Samora Machel (comandante militare, politico e rivoluzionario, e primo presidente del Mozambico dopo l’indipendenza del Paese nel 1976, ndr). Due erano le risposte possibili in un negozio: “ainda non llego” o “ya acabo” (‘non è ancora arrivato’ o ‘è già finito’). Ma ricordo anche la dolcezza della gente.
Altro quadro in Somalia, terra dove non siamo stati capaci, nonostante dieci anni di amministrazione fiduciaria, di lasciare un “patrimonio” coloniale oltre a qualche infrastruttura. L’iniziativa dell’Università Nazionale Somala (formare in loco una classe dirigente capace) fu, probabilmente, una buona intuizione che non ebbe, tuttavia, successo nel medio termine. La Somalia è stata, per molti anni, un paese che ha ricevuto una grande quantità di finanziamenti per lo sviluppo, usati per progetti che mai si sono trasformati in servizi. Con la caduta del regime di Siad Barre – poco tempo dopo che avevo lasciato il paese – la Somalia ha vissuto le note vicende che l’hanno resa uno dei paesi più insicuri, non solo in Africa.
Dall’Africa ho avuto molto. La libertà di azione è stata, probabilmente, l’elemento più importante e devo darne grazia agli Ambasciatori con i quali ho lavorato.
D. Nel 1991 ha assunto l’incarico di Addetto Scientifico per l’Ambasciata italiana, lavorando prima in Olanda e successivamente in Corea del Sud e Tunisia. Tre contesti molto diversi tra loro. Ce ne può parlare?
R. Sì, nel 1991, mentre ero in servizio in Egitto come responsabile sanitario dell’Unità Tecnica di Cooperazione, vinsi il concorso per addetto scientifico, incarico a contratto istituito dalla Farnesina presso alcune Ambasciate. Una funzione lasciata, nonostante alcune linee guida generali, in buona misura all’iniziativa e alla creatività dell’addetto. Dopo un periodo di formazione al Ministero degli Affari Esteri, presi servizio in Olanda. Si trattava di aprire l’ufficio e annodare fili con quel mondo scientifico e universitario, in cui operavano centinaia di ricercatori e professionisti italiani (tra agenzia spaziale europea, ufficio europeo brevetti e università e centri di ricerca). Il risultato fu la costituzione della Associazione Forum, il cui scopo era quello di promuovere la presenza italiana in Olanda in ambito scientifico e tecnologico. Funzionare da catalizzatore dell’Associazione fu un’esperienza molto interessante: iniziai con una mappatura delle presenze italiane, dopodiché si passò alla costituzione dell’Associazione vera e propria. In quel caso, più che da rianimatore, funzionai da ostetrico!
I sei anni trascorsi in Corea del Sud, dove aprii l’Ufficio dell’addetto scientifico, sono stati tra i più interessanti di tutto il mio inquieto “viaggio”, sia professionale sia personale. Ho avuto modo di apprezzare, di quel Paese, determinazione ed etica, rispetto e disciplina, organizzazione ed efficienza: qualità sempre più rare nell’emisfero occidentale. Certo, lo shock culturale all’arrivo fu notevole, data la difficoltà della lingua. Per fortuna Mr. Kim, l’interprete dell’Ambasciata, costante ombra dei miei spostamenti, mi permise di sopravvivere al primo impatto fino a raggiungere una discreta indipendenza, favorita anche dal fatto che la quasi totalità dei miei interlocutori (docenti universitari e responsabili di ricerca) erano coreani richiamati nel paese, dopo anni trascorsi all’estero. Fu allora che compresi il valore del “richiamo di cervelli”, non come dichiarazione politica ma come offerta di condizioni di lavoro ottimali (attrezzature e personale) e simili a quelle dei paesi dai quali rientravano. È stato questo, a mio avviso, uno dei “segreti” del miracolo tecnologico coreano di quegli anni, messo in pericolo dalla crisi finanziaria del ‘96, superata a costo di grandi sacrifici personali dei coreani. Un popolo al quale ancora adesso guardo con ammirazione.
E infine Tunisi. Quattro anni trascorsi quasi “fuori porta”, in un ambiente gradevole, che mi offrì l’opportunità di promuovere con successo scambi a livello universitario, oltre che contribuire all’avvio del progetto di una rete di scuole superiori universitarie tematiche distribuite tra i paesi della riva sud del Mediterraneo, voluto dall’allora Ministro della Università e Ricerca, Letizia Moratti, allo scopo di offrire formazione superiore a giovani talentuosi nel loro paese di origine.
Direi che l’esperienza di Addetto Scientifico mi ha permesso di creare una rete di contatti professionali e personali mantenuti vivi e operativi nel corso degli anni.
D. Come ha vissuto il suo rientro in Italia, dopo tanti anni all’estero?
R. Dopo oltre vent’anni di lavoro all’estero, il rientro in Italia è stato ottimo sul versante professionale, pesante su quello personale. Ottimo, perché ho potuto mettere a frutto l’esperienza maturata all’estero, assumendo l’incarico di Responsabile delle Relazioni Internazionali dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. Pesante, perché rientrando in Italia nel 2005, dopo una assenza così lunga, ho trovato un paese che non era più quello che ricordavo. La mancanza di rispetto nella vita di tutti i giorni fu l’elemento che più mi colpì.
D. In qualità di consulente direzionale per la cooperazione scientifica e tecnologica internazionale ha lavorato, dal 2007 al 2012, per il Comitato Scientifico di Expo Milano 2015 come Segretario Generale. Qual è stato il suo contributo al progetto?
R. Expo Milano 2015 è stato un capitolo speciale della mia vita, esaltante e triste. Chiamato a collaborare dal Presidente del Comitato Scientifico, il prof. Roberto Schmid di Pavia, il mio impegno era quello di coordinare il lavoro di una trentina di esperti, tra i quali ricordo il premio Nobel Amartya Sen, che avrebbero dovuto implementare una serie di iniziative sul piano scientifico-tecnologico ma anche formativo e divulgativo, sul tema dell’Expo Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita. Il Comitato contribuì alla redazione del progetto di candidatura, che si assicurò l’assegnazione dell’evento nel marzo 2008, e alla definizione dei primi piani operativi fino a quando, nel 2012, il Commissario Generale Sala (attuale Sindaco di Milano), decise di fare a meno del Comitato Scientifico. E questo, ovviamente, è il lato triste di una storia davvero esaltante.
D. Da qualche anno ha scelto di trasferirsi a Gran Canaria. Quali aspetti l’hanno attratta di quel luogo?
R. Come ho ricordato prima, il reinserimento in Italia non era stato facile e, venuto meno l’impegno per Expo, decisi di lasciare nuovamente il Bel Paese, questa volta in cerca di un lido accogliente per un pensionato non ancora pronto per la poltrona elettrica. Avrei voluto tornare in Africa ma, considerazioni legate alla sicurezza e alla disponibilità di servizi sanitari adeguati mi indirizzarono, ancora una volta grazie al caso, verso Gran Canaria. Decisi per un viaggio esplorativo e ciò che mi conquistò dell’isola, fin dal primo momento, fu ritrovare colori e sapori africani uniti a cultura e servizi europei. Un mix a mio avviso ottimo. Con il tempo, ho poi potuto conoscere altri aspetti positivi, quali la buona accoglienza e, soprattutto, ho ritrovato quel rispetto che in Italia è venuto meno.
D. Una domanda sulla sua attività poetica e letteraria. Ha pubblicato testi di poesia satirica come L’abbecedario del buon cazzeggiatore, Cazzeggiando come dove quando, Exposiade, Renzi La Divina (Tragi)Commedia, ma anche opere come Corniola, una raccolta di poesie, amore, incontro e vita, i cui componimenti hanno ottenuto diversi riconoscimenti internazionali. Cosa la ispira, quando compone?
R. Arrivato a Las Palmas, la prima decisione importante fu quella di cambiare tipo e stile di vita. In due anni mi liberai della cravatta e di molti lacciuoli con i quali avevo dovuto (ma mi era anche piaciuto) convivere negli anni precedenti. Ho ritrovato, in Canaria, una forma di libertà “africana” in un ambiente molto favorevole dal punto di vista umano e climatico. In questo “rinascere”, la poesia ha avuto un ruolo molto importante. Da tantissimi anni componevo poesiole: alcune scritte in occasione di ricorrenze e saluti (robetta in rime baciate, che riempiva con facilità carta di taccuini o di salviette di ristorante), altre riunite in pubblicazioni su temi seri, presentati in modo frivolo (rispetto, buona educazione, satira politica) e destinate, sostanzialmente, alla cerchia dei miei amici. Il quadro cambiò completamente nell’estate del 2018, quando mi innamorai, dopo anni di vita in solitudine. Un innamoramento maturo (a 72 anni), che mi aprì il cuore e riversò sulla carta centinaia di versi, non più in rima, ma scritti con l’inchiostro dell’emozione. Così nacque Corniola, pubblicata da Samuele Editore: una piccola grande casa editrice dedicata esclusivamente alla poesia. Con essa arrivarono i primi riconoscimenti e la traduzione in castigliano, Cornalina, curata da Rocio Bolanos.
Dopo qualche mese l’amore finì ma rimase il piacere di scrivere, sempre di amore. Non più per una donna, ma per il Cammino…
D. A proposito di Cammino, più volte ha affrontato il Cammino di Santiago. Cosa rappresenta, per lei? Lo vive come attività spirituale o semplicemente come esercizio fisico?
R. Il Cammino… lo scoprii per caso, nell’estate del 2016, andando in vacanza in Galizia e assistendo un sabato alla messa de Pellegrino. Entrare nella cattedrale fu come assistere alla pellicola della mia vita di nomade. In quel sabato, in chiesa, ero circondato da volti che avevano condiviso pezzi del mio cammino di vita: c’erano, ugandesi, russi, olandesi, coreani… tutti lì, a ricordarmi quello che era stato il mio mondo e a chiedermi di rimettermi in viaggio… e così fu.
Dopo il primo cammino da Sarria a Santiago, poco più di cento chilometri – il minimo sindacale per ottenere la Compostela, il certificato che attesta l’avvenuta peregrinazione – sono ripartito altre dieci volte, dal sud del Portogallo e della Spagna e da Alicante. Viaggi lunghi più di mille chilometri… e anche quest’anno sono riuscito, nonostante il Covid, a camminare per oltre 800 chilometri, tra un’ondata e l’altra…
Il Cammino mi ha conquistato e mi rendo conto che ne sono dipendente, ma è una dipendenza bella, ricca di emozioni, amicizie, scoperte, introspezioni, domande… Non lo vivo come esercizio fisico, né come corsa contro il tempo, ma indubbiamente il mio stato fisico generale in questi quattro anni è migliorato molto grazie al cammino…
D. Quale nuova avventura l’attende dietro l’angolo?
R. Le rispondo con una parola: vivere! Nel senso che le dava, all’inizio degli anni Settanta, uno dei miei primi maestri di rianimazione, il prof. Stoddart, il quale amava ripetere: “Lo scopo (del medico) non è far morire tardi, ma fare vivere a lungo”.
E, su questa idea, Stoddart e Ulisse sono andati d’accordo per cinquant’anni…”. (aise)