DAVVERO SAPPIAMO COME VENIRE A PATTI CON LA NOSTRA STORIA, IL PASSATO E I SUOI SIMBOLI? – di Simone Schiavinato

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SAN FRANCISCO\ aise\ - “Le statue sono un modello, una forma di esaltazione, un memento memoriae, un monumento, un retaggio del passato, anche un simbolo da contestare e abbattere. Tutto dipende dal momento storico che si vive, da quale storia ci portiamo sulle spalle, e dal valore che si attribuisce a un oggetto. Il punto è la contestualizzazione, cioè come ci poniamo di fronte a qualcosa avvenuto nel passato”. Partono da qui le riflessioni che Simone Schiavinato affida alle pagine online dell’ItaloAmericano, magazine che dirige a San Francisco.
“Ogni epoca ha i suoi eroi, i suoi valori e i suoi canoni di bellezza. Non sono assoluti né definitivi ma esprimono, danno voce al sentimento di un preciso momento storico. Ogni epoca ha anche i suoi disastri, le sue guerre, le vittime rimaste a terra, il sangue innocente. Un “cuore di tenebra” che spesso ci si porta dietro senza sufficiente elaborazione, che finisce per filtrare il presente.
Quando quel momento storico è lontano da noi, possiamo riappropriarcene, condividendone i valori piuttosto che i parametri artistici o rifiutarli, attribuendo anche significati che in realtà non appartengono a quei retaggi, che non erano espressi nel marmo o nel bronzo perché successivi. Quando invece il momento storico è molto vicino, quando siamo dentro gli eventi, manca la distanza critica necessaria, fondamentale per capire.
In queste settimane, portando avanti un cammino di revisionismo, rimozione e contestazione, molte statue di personaggi storici sono sotto attacco, da un lato e dall’altro dell’oceano. Ci si schiera pro o contro il personaggio ritratto, si abbattono statue come al termine di una dittatura. E ci sta, fino a quando non si travalica l’importanza di ricordare. Cancellare non redime, non fa in modo che qualcosa non sia accaduto nel passato. Molto spesso riuscire a fare i conti con la storia è decisamente più importante.
Quando abbiamo visto demolire con furia iconoclasta i Buddha di Bamiyan, le due enormi statue scolpite da un gruppo religioso nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan, in Afghanistan, a circa 230 chilometri dalla capitale Kabul, la reazione è stata la condanna più o meno generalizzata di un atto che devastava opere d’arte risalenti a 1500-1800 anni fa. L’umanità aveva perso per sempre un pezzo della sua storia, dalla sua arte, del suo patrimonio. Tanto che nel 2003 l’intera zona archeologica circostante venne inserita nella lista dei Patrimoni mondiali dell’umanità e l’Unesco si impegnò, insieme ad alcune nazioni, per la ricostruzione delle due statue distrutte nel 2001.
Le ragioni della demolizione erano politiche, legate a una contingenza storica che ben poco aveva a che fare con il valore di quelle raffigurazioni.
Se si va a in vacanza a Berlino, si cerca istintivamente un pezzo del suo tragico passato: certo abbattere il Muro aveva nel 1989 un significato essenziale non solo per la storia e il futuro dell’Europa, la fine della guerra fredda tra due blocchi opposti, la democrazia e tutto quello che è successo fino ad oggi. Ma non poterlo vedere oggi, toccare, non capire l’impatto che poteva avere sulla vita quotidiana della città e dei suoi cittadini è una assenza, un tassello mancante. Parliamo di identità, di conti con il nostro passato, non certo di un selfie che ora non possiamo farci davanti a pezzo di cemento, magari sorridendo irriverenti del dolore assorbito sotto i murales.
Il punto è che limitarsi a buttare giù serve a poco. Cade un tiranno e si butta giù la statua che lo osannava. Emotivamente è comprensibile. L’atto simbolico ci sta soprattutto se avviene contestualmente. Ma non a secoli di distanza, quando si sono sovrapposti secoli di elaborazioni semiotiche. Non ci si può limitare alla furia iconoclasta. Se non si elabora, se non si capisce la complessità, avremo semplicemente perso un’occasione importante.
A conferma ci sono i campi di concentramento. C’è chi ancora nega lo sterminio pur avendo davanti elenchi lunghissimi di vite spezzate. La storia lascia dei simboli, dei personaggi, che non per forza dobbiamo accettare. Ma la rimozione, l’abbattimento, il vandalismo o la distruzione non servono a nulla se tutto finisce lì. Altrimenti si vive la storia schiacciata su un eterno presente.
È come la statua di Cristoforo Colombo. Siamo sicuri che racchiuda tutto il male di cui è accusata? O negli anni è stato aggiunto qualcosa che non aveva in origine?
Ogni epoca fa errori e ogni identità culturale e sociale ha lati positivi e lati negativi, come ciascuno di noi. Ma limitarsi ad eliminare un monumento è ripetere lo stesso errore di chi ha pensato fosse giusto sfregiare la Pietà di Michelangelo. Se non abbiamo una memoria con cui confrontarci, buona e costruttiva che sia o sporca e vigliacca come spesso è stata, non saremo capaci di evolvere. Sarà come non aver imparato la lezione del passato.
Quando in una piazza mancherà un personaggio a cavallo non per questo avremo riscritto la storia, non si cancellerà quello che è stato. Con o senza la statua di Giovanna d’Arco a Parigi non si eliminerà la caccia alle streghe di ieri e di oggi. Con o senza il Foro Italico a Roma, non si cancelleranno le tragedie subite durante il ventennio.
Bisogna lavorare sull’educazione, la cultura, l’intercultura, i diritti umani, civili e sociali. Avrà probabilmente più senso contrapporre un nuovo monumento ad uno contestato, elaborare nuovi simboli accanto a quelli oggi ostracizzati ma anche in questo caso dovremo stare attenti a non politicizzare, a non strumentalizzare, a non piegare all’emozione di un momento, giusta o sbagliata che sia, la storia e l’identità (complessa) di interi popoli”. (aise)