MARIA LAURA CONTE PER L’ISTITUTO AFFARI INTERNAZIONALI: IL VIRUS TORNERÀ SE NON LO SCONFIGGIAMO IN AFRICA

ROMA\ aise\ - ““This crisis has shown how interconnected we all are. No region can win the battle against Covid-19 alone. If it is not beaten in Africa, it will return to haunt us all. So let us work together, to end the pandemic everywhere”: con questa dichiarazione si chiudeva la lettera sottoscritta da 18 capi di Stato e di governo, europei (tra cui l’Italia) e africani, ripresa nei giorni corsi dal Financial Times e seguita da un certo dibattito. Significativa la reazione del settore privato, che ha chiesto di essere considerato in partita, portando solo alcuni dati: l’Africa rischia di perdere 20 milioni di posti di lavoro per la pandemia, secondo l’Onu, e aveva già bisogno dai 10 ai 20 milioni di posti in più, e 9 posti su 10 sono garantiti dal settore privato (dati World Bank)”. Partono da qui le riflessioni che Maria Laura Conte, direttrice della comunicazione di AVSI, organizzazione non governativa senza scopo di lucro che realizza progetti di cooperazione allo sviluppo, affida all’articolo scritto per l’Istituto Affari Internazionali che lo ha pubblicato nei giorni scorsi sul suo sito web. Ne riportiamo di seguito la versione integrale.
La situazione nel continente
Questo richiamo corale a vigilare insieme sull’Africa, dunque, ruota attorno a un cardine: il riconoscimento di una convenienza per tutti, perché “se non si sconfigge il virus in Africa, tornerà a dare la caccia a tutti noi”. Sapevamo da tempo quanto siamo interconnessi, ma mai prima di questa emergenza sanitaria, sociale ed economica, ci eravamo scoperti così vulnerabili in tempi così rapidi e su più fronti, da doverci chiudere tutti in casa.
Perciò l’Africa fa più paura del solito e si tiene monitorata la diffusione del coronavirus nonostante la difficoltà di raccogliere i dati. Ci prova, tra gli altri, l’Africa Center for Strategic Studies, che evidenzia la velocità con cui il contagio cresce (circa del 25% al giorno) ormai in 47 Paesi per un concorso di fattori tra cui spiccano la densità della popolazione delle città e la debolezza del sistema sanitario. Ci sono 0,25 medici e 1,4 letti a disposizione per ogni 1.000 persone in Africa, mentre si contano 3 medici per 1.000 abitanti nei paesi Ocse e 4 letti per 1.000 abitanti in Cina.
Se il Fmi paragona l’attuale crisi a quella del ’29, per altri, tra cui Janet Carrie di Princeton, è anche peggiore per la rapidità espansiva. La Commissione economica per l’Africa (Eca) in un report del 17 aprile ha dichiarato che oltre 300.000 africani potrebbero perdere a vita per il virus, e che la crescita economica potrebbe rallentare dal 3.2% al 1.8%, spostando sotto la linea della povertà estrema 27 milioni di persone. E il quadro di McKinsey & Company è ancora più fosco: calcola che il Pil potrà crollare dal 3 all’8%.
Partnership, prevenzione e resilienza
Ma se ai tavoli dei report è bandito ogni ottimismo, nella individuazione dei possibili percorsi di uscita vince una parola: partnership. Si tratta una categoria in voga da tempo nel mondo della cooperazione internazionale allo sviluppo, che la considera una condizione decisiva per implementare i suoi programmi, perché la complessità della realtà con cui ha a che fare chiede di per sé un approccio integrato, basato su alleanze tra soggetti diversi, istituzionali, privati, realtà della società civile, con indirizzi nuovi di investimenti e di risorse.
Solo che nell’era del Covid-19 questa categoria acquista maggior urgenza. E ha bisogno di un innesco pratico, che può venire dall’incontro delle previsioni con le esperienze concrete di terreno, con chi opera a contatto con gli ultimi del mondo, in progetti che, per essere realizzati, devono fare i conti quotidianamente con persone in carne e ossa.
E qui, a questo livello, sono due i binari decisivi: la prevenzione, cioè mettere in campo tutto il possibile per evitare il contagio, e la resilienza per la ripartenza, non appena possibile.
Entrare in una sartoria ad Abidjan potrebbe aiutare a capire: mentre nel Palazzo delle Nazioni Unite si andava imponendo una narrativa contro i corsi per sarte e parrucchiere, considerati espressione del patriarcato sessista, ecco che oggi quelle sarte si riscattano perché possono cucire le mascherine, prima forma di difesa. Come i laboratori di saponi o di igienizzanti, oggi essenziali in luoghi come lo slum di Kibera di Nairobi, dove non esiste differenza tra lo spazio di casa e quello esterno, e la distanza sociale è un’utopia.
Difendere la scuola e le imprese
Ma prevenzione e resilienza si costruiscono anche tenendo in piedi per quanto possibile l’offerta educativa nonostante il lockdown: un giovane che non va a scuola in Africa rischia non solo di saltare l’unico pasto della giornata, ma di perdere una rete di protezione, una difesa dal richiamo della criminalità. Per questo vanno rilanciate esperienze come quella della scuola “Card. Otunga” di Nairobi in Kenya, che ha avviato un sistema di didattica digitale, o il progetto di educazione in emergenza supportato da Education Cannot Wait in Repubblica Democratica del Congo con Avsi, dove si aiutano scuole e insegnanti tramite tutorial e WhatsApp per non perdere il contatto con gli allievi a distanza.
Con lo stesso criterio pratico chiedono di essere difese le piccole e medie imprese che in Africa garantiscono l’80% dei posti di lavoro e non possono reggere al lockdown, e vanno accompagnate a evolvere le attività economiche informali, che si stima costituiscano il 55% dell’economia sub-sahariana.
Lo snodo sta qui: l’allarme che viene da agenzie Onu e think tank deve interagire con la creatività che nasce dal basso, con chi opera da anni sul terreno, per tradursi in pratiche realistiche e di successo perché ideate e tarate sul bisogno effettivo. Se il virus costringesse ad accelerare questo processo di dialogo fattivo, a investire fondi secondo questi criteri, lascerebbe molti feriti, ma potrebbe segnare una svolta”. (aise)