La Voce di New York/ Maurizio Massari: per riformare l’ONU serve “un bagno di realismo” - di Stefano Vaccara

NEW YORK\ aise\ - “Entrare all’ultimo piano del grattacielo di Manhattan dove lavorano i diplomatici della Missione d’Italia all’ONU è come entrare in un museo d’arte antica, medievale, rinascimentale, moderna e contemporanea. Sculture con teste di imperatori romani dominano su colonnini, alle pareti dipinti di straordinaria intensità, ovunque bellezza da far venire la sindrome di Stendhal. Il Carabiniere che ti scruta all’entrata ha un sorriso gentile, ma una divisa che istintivamente ti fa mettere ben in mostra il tuo UN pass. Entrando nell’ufficio dell’ambasciatore Maurizio Massari, la testa continua a girare per le opere d’arte sparse dappertutto e anche per la vetrata che sovrasta i grattacieli di Manhattan. Al One Dag Hammarskjold Square lavorano numerose missioni di Paesi membri dell’ONU, soprattutto europei, inclusa la Francia. Ma è l’Italia che ha gli uffici all’ultimo piano, dove anche il Palazzo di Vetro accanto all’East River si vede meglio”. Ad intervistare l'ambasciatore d'Italia alle Nazioni Unite è Stefano Vaccara de La Voce di New York, che con il rappresentante italiano all’ONU ha parlato di guerra in Ucraina, Libia, diritti delle donne, clima e riforma del Consiglio di Sicurezza.
“Massari è un diplomatico con oltre 30 anni di esperienza. Napoletano, laureato all’Orientale, agli inizi della carriera “sovietologo”, la “Grande madre Russia” la conosce eccome. Così come gli USA (ha studiato al SAIS e ad Harvard) dove ha lavorato anche all’Ambasciata. Già ambasciatore a Belgrado e alla sede dell’UE a Bruxelles, esperto anche di Mediterraneo e Medio Oriente, quando ascolti Massari sembra la lecture in un autorevole “think tank” di politica estera americano.
L’ambasciatore parla con noi nello stesso giorno in cui incontra il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, mentre dall’altra parte dell’oceano Fillippo Grandi dell’UNHCR è in visita a Roma per confrontarsi col governo e con la premier Giorgia Meloni.
Ecco l’intervista a Maurizio Massari che ha risposto con generosità a tutte le nostre domande.
D. Guerra in Ucraina: che cosa può fare ancora l’Onu? Il Consiglio di Sicurezza è stato bloccato dai veti del Cremlino. L’Assemblea Generale ha approvato risoluzioni di condanna dell’invasione russa, risoluzioni co-sponsorizzate anche dall’Italia: ma come si può concretamente fermare la guerra dal Palazzo di Vetro?
R. L’Onu ha fatto e sta facendo molto per l’Ucraina. Se escludiamo la paralisi del Consiglio di Sicurezza per il veto russo, la verità è che con le numerose risoluzioni di condanna votate dall’Assemblea Generale con larga maggioranza, l’Onu si è compattata nel condannare questa aggressione e nel richiedere il ritiro delle truppe russe. Quindi il segnale politico forte è stato dato dall’Assemblea Generale. Ma non è tutto. C’è stata un’azione molto importante e che continua discreta dietro le quinte del segretario generale Antonio Guterres, a cui siamo molto grati, insieme al governo turco, per risolvere il problema della sicurezza alimentare, favorendo questa esportazione sia di grano che di fertilizzanti russi e ucraini dal Mar Nero. E questo ha sbloccato una situazione di emergenza alimentare in moltissimi Paesi del sud globale. Poi l’accelerazione umanitaria che l’ONU porta avanti nel terreno per alleviare le sofferenze delle persone che sono lì con tutte le agenzie, inclusa la condizione di rifugiati attraverso l’UNHCR. E poi c’è anche quello che l’ONU sta facendo nel sistema ONU sul tema della “accountability”, cioè della responsabilità per i crimini di guerra. C’è una missione dell’ufficio dei diritti umani dell’Onu sul campo che sta raccogliendo prove e testimonianze di questi crimini commessi e c’è anche la Corte Penale Internazionale attiva nel terreno. Quindi c’è questo filone di accountability molto importante. L’ONU sta facendo molte cose, l’unica cosa che non riesce a fare, almeno per ora, è quella di fermare la guerra. Questo dipende dai due Paesi parte del conflitto e che non intendono rinunciare alla strategia della vittoria militare.
D. Resta sempre la grande preoccupazione che questa guerra si possa allargare. Intanto la NATO e l’Europa inclusa l’Italia forniscono più assistenza militare all’Ucraina. Per qualcuno questo significa rischiare il cataclisma eppure l’aiuto militare al Paese aggredito rientra nel diritto internazionale. Ma quanto è serio il rischio di un allargamento della guerra con conseguenze incalcolabili?
R. L’aiuto che i Paesi cosiddetti affini o “like minded”, alleati, che stanno dando l’aiuto militare all’Ucraina è assolutamente legittimo trattandosi di un Paese aggredito da una potenza esterna. E quindi gli si danno gli strumenti per potersi difendere e contrastare questa aggressione. Anche perché, se si lasciasse conquistare alla Russia il territorio dell’Ucraina, sarebbe un precedente pericoloso per tutto il resto del pianeta. Oltre ad essere una violazione palese dei principi su cui si basa la Carta delle Nazioni Unite. È chiaro che in questo aiuto militare che i Paesi like-minded stanno dando all’Ucraina, da questi Paesi c’è la consapevolezza di dover evitare un’escalation militare suscettibile di portare ad un conflitto diretto con la Russia. Noi stiamo dando gli strumenti all’Ucraina per difendersi, ma senza però voler far la guerra alla Russia. Del resto e come abbiamo sempre detto, con la Russia e il popolo russo non c’è nessun contenzioso particolare. Il problema è la politica sciagurata seguita dalla sua leadership. Anche tutte le offerte di armamenti all’Ucraina tengono molto ben presente che l’obiettivo è quello di aiutare l’Ucraina a difendersi, ma non a fare una guerra alla Russia.
D. Pensa che Guterres abbia ragione quando sostiene di non vedere le condizioni per una trattativa di pace imminente?
R. Assolutamente corretto quello che dice Guterres ed è anche la constatazione nostra. Al momento non ci sono le condizioni per una pace, che i due contendenti si possano sedere ad un tavolo. Ancora le parti del conflitto ritengono possibile la vittoria militare. La vittoria militare per l’Ucraina significa difendere il proprio territorio, per la Russia significa acquisire manu militari il territorio di un Paese sovrano, cosa che è assolutamente inaccettabile. Dando le armi di autodifesa all’Ucraina, la nostra intenzione è quella di creare le condizioni per far un giorno sedere le due parti al tavolo per avere una pace giusta. E per giusta intendo che sia compatibile con i principi della carta delle Nazioni Unite.
D. Passiamo alla Libia, che prima della guerra in Ucraina, era indicata dai governi di Roma come il problema principale della politica estera italiana. L’Italia è soddisfatta del lavoro finora svolto dell’inviato speciale di Guterres, Abdoulaye Bathily? Prima di lui in tanti hanno fallito nella loro missione di stabilizzazione per arrivare alle elezioni…
R. La Libia rimane assolutamente prioritaria nelle nostre azioni di politica estera. Come dimostra il viaggio appena fatto dal presidente del Consiglio Meloni accompagnato dal ministro degli Esteri Tajani e dal ministro degli Interni Piantedosi e per gli accordi che sono stati firmati. Ecco che l’Italia ha un ruolo diplomatico assolutamente centrale. Il nostro approccio è quello di sostenere una soluzione politica che sia condivisa dai libici e dalle varie regioni del territorio libico, con la mediazione delle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite sono per noi l’unico vero honest broker. Dobbiamo evitare interferenze esterne e di altri Paesi che non fanno che ritardare la composizione del quadro interno libico, prendendo posizioni per questo e per l’altro fronte politico. Noi sosteniamo pienamente Bathily, è lì da solo pochi mesi, crediamo che stia facendo un lavoro importante. Naturalmente il tempo davanti per arrivare alle elezioni in Libia non è infinito, dobbiamo assolutamente avere queste elezioni entro quest’anno, quindi noi confidiamo che Bathily, nel giro di un mese o due al massimo, possa presentare questa sua road map qui in Consiglio di Sicurezza, così da poter indicare le condizioni per arrivare alle elezioni in Libia. Con delle regole del gioco condivise da tutti gli attori libici e noi siamo prontissimi a dare una mano a Bathily in questo suo lavoro. L’inviato Onu ha e avrà nell’Italia un alleato disinteressato dal punto di vista di quale attore politico possa vincere poi le elezioni. Noi assolutamente appoggiamo l’azione di honest broker dell’Onu.
D. Quindi i tempi dei rinvii sono finiti e ci vorrà presto una road map precisa per le elezioni (alla conferenza stampa dell’ambasciatrice di Malta Vanessa Frazier di mercoledì per la presidenza del Consiglio di febbraio, la diplomatica maltese ha confermato che dalla riunione del 27 febbraio con Bathily si aspettano delle “importanti novità”). Ora lei aveva accennato al viaggio della premier Giorgia Meloni in Libia appena avvenuto, dove si è firmato anche un importantissimo accordo tra l’ENI e la compagnia statale libica NOC per la produzione di gas in Libia. L’intesa consentirà di aumentare la produzione di gas per rifornire il mercato interno libico, oltre a garantire l’esportazione in Europa. L’accordo è stato firmato alla presenza del presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, e del primo ministro del Governo di unità nazionale libico, Abdul Hamid Al-Dbeibah. Ma appunto è un accordo firmato con il governo di Tripoli che però non viene riconosciuto da mezzo Paese, che ha altri leader a Tobruk. Il successo di questo accordo energetico da ben 8 miliardi di euro forse arriva troppo presto? Se poi a vincere le elezioni fossero coloro che in questi giorni non riconoscevano la legalità dell’accordo? Oppure serviva in questo momento far sentire che l’Italia in Libia c’è?
R. Credo sia stato un accordo molto importante che darà i suoi frutti nel corso dei prossimi anni ed è un accordo di cui si avvantaggerà in primo luogo il popolo libico. Perché questo gas che poi verrà prodotto sarà per il mercato interno libico e naturalmente anche per l’esportazione. A prescindere da chi domani possa vincere le elezioni e non lo sappiamo perché la democrazia è basata sull’incertezza del risultato elettorale. Noi lo rispetteremo comunque, se saranno elezioni “free and fair”. Io credo che chiunque sia, il governo di domani possa solo beneficiare di questo accordo”.
D. I maggiori paesi europei, dopo il 2011, hanno battuto strade diverse in Libia facendo politiche che nel mettersi in competizione non hanno fatto gli interessi della stabilizzazione del Paese. Penso soprattutto alle rivalità in Libia con la Francia, ma anche Germania e UK. Queste si sono finalmente dissolte? Si procede insieme per la stabilizzazione della Libia?
R. Assolutamente sì. Io credo che la fase di competizione intra-europea, che poi non conveniva a nessuno, sia stata superata già da diversi anni. I principali shareholder europei oltre all’Italia, quindi Francia e Germania, si consultano regolarmente sulla Libia, a livello di capitali, a Bruxelles per quanto riguarda l’azione europea. Anche qui a New York. Abbiamo un interesse comune ad avere una Libia stabile, unita e che possa riprendere il cammino di sviluppo, perché le risorse della Libia sono importanti. Si tratta solo di sbloccare questo potenziale di sviluppo, eliminando questo freno a mano che costituisce l’instabilità politica del Paese.
D. Questa unità europea ritrovata aiuterebbe anche sulla questione migranti dove l’Europa deve ancora trovare una politica comune, giusto?
R. Certamente, l’Europa deve essere ancora più unita sui migranti, con responsabilità anche morali, di solidarietà per quanto riguarda la redistribuzione dei migranti e rifugiati, non possono essere soltanto a carico di Italia, Francia e Germania, ma ci vuole una base più ampia e credo che sia una responsabilità comune dei 27 Paesi dell’Unione europea.
D. Che è poi quello che chiede sempre l’ONU all’Europa, di restare unita sulla questione migranti. Passiamo alla questione che hanno dovuto affrontare, dall’ambasciatore Francesco Paolo Fulci in poi, tutti i rappresentanti permanenti dell’Italia all’ONU negli ultimi 25 anni: la riforma del Consiglio di Sicurezza. Il gruppo guidato dall’Italia – “Uniting for consensus” – in questi anni è stato accusato di mettere in “stallo” la riforma, mentre le ambizioni della Germania, il Giappone, il Brasile e soprattutto l’India si sono fatte più insistenti grazie anche all’appoggio di alcune potenze permanenti, come gli USA. Vuol spiegarci l’attuale posizione italiana in merito?
R. Io parto dalla constatazione che la tesi secondo cui “Uniting for consensus” e l’Italia abbiano contribuito allo stallo di questo negoziato per la riforma è assolutamente falsa. Semmai il contrario. Uniting for Consensus ha negli ultimi decenni, elaborato e costruito un progetto di riforma, con una flessibilità anche dal punto di vista delle possibili soluzioni, e ha proposto un modello di riforma comunque aperto alla discussione che è, se lo si va a guardare bene, l’unica realistica zona di atterraggio di questo lunghissimo negoziato. Noi la riforma la vogliamo e subito. Ma proprio perché la vogliamo subito, proponiamo una soluzione realistica, che, se si volesse, si potrebbe fare anche domani. Quelli che invece propongono soluzioni massimaliste, per i propri interessi di “self-aggrandizement”, sono loro che causano lo stallo, perché continuano a sostenere posizioni massimalistiche che non sono realizzabili. E mi chiedo perché questi Paesi a titolo individuale, cioè non rappresentando nessun continente o nessuna regione, avanzano pretese di seggio permanente, con o senza diritto di veto, nel Consiglio di Sicurezza. Questo non è un approccio condiviso dalla larga parte dei membri delle Nazioni Unite ed è di difficilissima realizzazione. L’Italia ha fatto bene a non accettarlo come altri Paesi al di fuori di Uniting for Consensus. Ricordiamo che questo gruppo raccoglie un largo gruppo di medie potenze, molto importanti e significative. Come il Canada, il Pakistan, la Turchia, l’Argentina e così via…
D. Pensa che il traguardo per un compromesso che possa portare, dopo oltre un quarto di secolo di discussioni, ad una riforma con un concreto cambiamento della composizione del Consiglio di Sicurezza sia vicino oppure tutto resterà uguale e chissà per quanto tempo?
R. Questa riforma per essere realizzata in tempi non troppo lunghi ha bisogno di un bagno di realismo da un po’ tutte le parti. Quello che proponiamo noi, sempre adattabile, riflette questo bagno di realismo. Cosa diciamo noi in pratica: signori, soprattutto dopo l’episodio del blocco della risoluzione sull’Ucraina al Consiglio di Sicurezza a causa del diritto di veto etc, l’idea di proporre nuovi membri permanenti che rispondono soltanto a sè stessi (non essendo eletti periodicamente ma essendo appunto permanenti), con in più il diritto di veto, non farebbe che rendere ancora più paralizzato il Consiglio di Sicurezza. E poi non è democratico, perché allarga il gruppo dei privilegiati. In una situazione in cui c’è un terzo dei Paesi membri dell’ONU che non ha mai seduto al Consiglio di Sicurezza. Allora noi diciamo: diamo la chance a tutti di entrare al Consiglio di Sicurezza, proponendo l’allargamento alla categoria dei membri non permanenti prevedendo anche la possibilità di seggi eletti su elezione di più lunga durata. Anziché sedersi per due anni si può restare per 4 anni, c’è la possibilità di essere rieletti e servire fino a 8 anni etc e in questo modo si crea una rotazione tale che tutti hanno prima o poi la possibilità di entrare. Dovendo poi essere soggetti alle elezioni dell’Assemblea Generale hanno anche una responsabilità, un dovere di rendicontazione all’intera membership. Non diventano parte del club dei privilegiati… E poi l’altro elemento fondamentale per la nostra posizione è che noi diciamo che non chiediamo seggi per noi stessi ma li diamo, passando da 15 a 26, soprattutto alle regioni sotto rappresentate. Africa, Asia, America Latina, stati insulari, mentre per il gruppo occidentale in più ne chiediamo soltanto uno. Perché l’Occidente - e io lo ripeto sempre nei dibattiti - è già ampiamente rappresentato in Consiglio di Sicurezza. Abbiamo tre Paesi che sono membri del G7 e che sono membri del P5, dei membri permanenti. Vogliamo sbilanciare ancora di più questo consiglio di sicurezza o vogliamo riequilibrarlo geograficamente? Se vogliamo riequilibrarlo bisogna premiare il nostro approccio.
D. Ci sembra di capire che ci vorrà ancora del tempo prima che si trovi un accordo. Sembra che Kissinger una volta abbia detto: non trovo il numero di telefono dell’Europa… Sono passati tanti anni e di politica estera comune, almeno qui alle Nazioni Unite, se ne vede poco o nulla. Che fine hanno fatto i propositi di coordinamento europeo nel Consiglio di Sicurezza? L’Unico Paese dell’UE, oltre alla Francia, che siede al UNSC è Malta: il suo seggio serve anche al coordinamento di una posizione comune? Vi coordinate o non se ne parla più?
R. Certamente c’è un coordinamento regolare a livello di Unione Europea su tutti i principali dossier e quindi anche sull’azione in Consiglio di Sicurezza. Abbiamo Malta come membro eletto per i prossimi due anni e quindi la Francia che è permanente. Ma siamo ben lontani da quello che invece occorrerebbe per dare veramente una sovranità politica, geopolitica all’Europa. Un seggio per l’Unione Europea. Che qui non è il problema di avere Malta, di allargare all’Italia o Germania etc. Qui la vera necessità del mondo di oggi, dove è cambiata la struttura del sistema internazionale, è avere un seggio – che poi possa essere semi permanente, a lunga durata, etc – ma che veramente sia dell’Unione Europea. Anche un Paese che poi a rotazione rappresenti l’UE. Perché in questo momento la voce dell’Unione europea al Consiglio di Sicurezza è molto debole. E questo è un salto di qualità che dobbiamo fare. L’Unione europea rappresenta il primo blocco economico commerciale al mondo, 500 milioni di abitanti, è un continente. Ma dobbiamo essere uniti. Non possiamo continuare in questa direzione divisiva o anche per esempio concorrere uno contro l’altro su questi seggi elettivi ogni due anni. Non è così che si fa l’Europa.
D. Diritti donne: in Afghanistan, come in Iran e anche altri Paesi, le donne e soprattutto le giovani ragazze restano vulnerabili all’oppressione di regimi liberticidi e anti-storici. L’Italia quest’anno è alla vicepresidenza di UN Woman: cosa può fare di concreto il governo italiano per alleviare le sofferenze delle donne in certi Paesi che restano membri dell’ONU?
R. Intanto l’Italia anche prima della vice presidenza della UN Woman si è molto impegnata sul tema dei diritti e della salvaguardia dei diritti delle donne afghane. Continuerà a farlo, malgrado il trend il quel Paese stia andando in una direzione negativa. Non dobbiamo diminuire la nostra attenzione. Difendere i diritti delle donne afghane anche per salvaguardare tutti gli investimenti fatti negli ultimi venti anni e porlo come una condizione anche per un possibile riconoscimento futuro delle autorità di fatto. L’Iran è diverso perché l’Italia insieme ai Paesi like-minded ha votato per espellerlo dalla commissione dei diritti umani, perché ovviamente ciò che è accaduto alle donne iraniane e continua ad accadere è un motivo di altissima preoccupazione. Alle Nazioni Unite sui temi del women empowerment ci sono anche divisioni che sono di carattere culturale, regionale etc ed è chiaro che l’Europa è tra i gruppi più avanzati per l’apertura verso i diritti delle donne e dobbiamo continuare in questa battaglia che è ancora molto lunga.
D. La morte del cooperante ONU Mario Paciolla in Colombia. Dopo oltre oltre due anni, le autorità colombiane hanno archiviato il caso come suicidio, mentre in Italia si attende la risposta del GIP alla domanda di archiviazione della procura di Roma. La versione del suicidio non ha mai convinto la famiglia, che accusa l’ONU di “cover up”. Cosa l’Italia può ancora fare per accertare la verità e avere giustizia per Mario e come giudicate finora il comportamento tenuto dall’ONU?
R. A parte la solidarietà espressa da tutte le nostre autorità e istituzioni alla famiglia di Mario Paciolla, come sa il caso è nelle mani dell’autorità giudiziaria italiana. Si attende quale sarà il responso. Ora, se fosse riaperto, è chiaro che la nostra rappresentanza qui a New York, come fatto in precedenza, continuerà a fornire tutta l’assistenza necessaria, in raccordo con la Farnesina, per ottenere ulteriori elementi che possono essere utili alle indagini. Le Nazioni Unite hanno fino ad oggi sempre fornito riscontro a queste richieste di elementi. Quindi nel caso ci fosse essere una riapertura da parte delle autorità giudiziarie, torneremo alla carica e contiamo sulla piena collaborazione dell’Onu.
D. Il 2021 è stato l’anno tormentato ancora dalla pandemia. Il 2022 quello in cui nel mondo sono tornati gli spettri della Guerra di conquista. Ma, in tutto questo, il segretario generale dell’ONU Guterres aveva avvertito che la questione del clima e riscaldamento globale non fosse più rinviabile. A Sharm el-Sheik, si è ancora una volta ripetuto che non c’è più tempo per salvare il pianeta dalle catastrofi ambientali. L’Italia giudica ancora il cambiamento climatico il più grave e urgente problema internazionale da affrontare in sede ONU? Oppure, dopo la pandemia e la guerra in Ucraina, passa in secondo piano?
R. All’ONU ormai si parla di “crisi interconnesse” e “multidimensionali” e il cambiamento climatico non è quindi più visto come un dossier a sé stante, ma come uno dei fattori che più incidono in modo trasversale su tali crisi. Il legame tra l’emergenza climatica e il mantenimento della pace e sicurezza internazionale è evidente. Il cambiamento climatico, i disastri e le calamità naturali sono moltiplicatori di rischi, possono esacerbare conflitti e minarne la prevenzione e colpiscono in modo asimmetrico le comunità più povere e vulnerabili che purtroppo ne pagano il prezzo. L’Italia anche nel suo ruolo di vice presidente ECOSOC, sostiene gli sforzi dell’ONU per tradurre questo senso di urgenza in azioni, per assicurare il coordinamento tra programmi umanitari, di sicurezza e climatici, verso la “Nuova Agenda per la Pace” del prossimo anno, ponendo la prevenzione al centro dei nostri sforzi. Tra i principali appuntamenti previsti all’ONU, vi saranno la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Acqua in marzo, l’SDG Summit e il Climate Ambition Summit, questi ultimi entrambi in settembre. La Conferenza delle Nazioni Unite sull’Acqua si terrà a New York tra il 22 e il 24 marzo 2023, dopo 46 anni dalla prima. L’acqua è un bene sempre più scarso a livello globale. La siccità della prima metà del 2022 ha ridotto la produzione di energia idroelettrica, che rappresenta circa il 40% della produzione da rinnovabili. L’Italia organizzerà un side-event importante con l’UNESCO World Water Assessment Program (WWAP) di Perugia, in cui lanceremo il rapporto annuale ONU sullo sviluppo idrico mondiale. L’SDG Summit (19-20 settembre) convocherà Capi di Stato e di Governo per un seguito e una revisione dell’attuazione dell’Agenda 2030 e dei 17 Goal. Il Summit fornirà input politici per rispondere all’impatto delle crisi interconnesse e individuare azioni “trasformative e accelerate” per raggiungere gli obiettivi entro il 2030. Il Summit coinvolgerà tutti gli stakeholder rilevanti e quindi anche la società civile e le imprese. Poi ci sarà il Climate Ambition Summit, convocato dal segretario generale in sostituzione del consueto “Climate Moment”; evocato dal SG un nuovo “Climate Solidarity Pact” con i più grandi emettittori chiamati a sforzi aggiuntivi anche a sostegno dei Paesi più in difficoltà. Il Vertice costituirà uno dei momenti topici in preparazione della COP 28 di Dubai. Di recente, il governo italiano ha istituito il Fondo Per il Clima, dove confluiranno i finanziamenti che il nostro Paese mette annualmente a disposizione per contribuire agli sforzi multilaterali per aiutare i paesi emergenti con strategie di mitigazione, tecnologie a basso impatto ambientale e azioni di adattamento. Il Fondo, lanciato insieme a Cassa Depositi e Prestiti alla COP 27, rispecchia questo forte impegno dell’Italia”. (aise)