L’ItaloAmericano/ Sistema Italia: una realtà vincente negli USA - di Barbara Minafra

LOS ANGELES\ aise\ - ““L’impronta del Sistema Italia negli Stati Uniti è forte, dinamica e destinata a crescere nell’attuale scenario globale in cui è fondamentale rafforzare i legami, anche economici, tra Paesi che condividono valori e visione per il futuro”. Così l’ambasciatrice d’Italia negli Stati Uniti Mariangela Zappia commentando i dati emersi dallo studio affidato all’Università di Brescia che ha esaminato “L’impatto economico italiano negli Stati Uniti”. Un rapporto da cui emerge un’importante presenza delle imprese italiane sul mercato nordamericano sia in termini di fatturato che di posti di lavoro”, come scrive Barbara Minafra in un articolo pubblicato sul portale on line del giornale bilingue di Los Angeles “L’ItaloAmericano”, in cui, oltre a riportare i dati e le dichiarazioni dell’ambasciatrice, è stato intervistato il prof. Marco A. Mutinelli per un approfondimento.
“Siamo ad esempio il settimo Paese europeo per numero di dipendenti in imprese americane controllate e negli Stati Uniti risultano attivi 1.826 investitori italiani che hanno quote di partecipazione in 3.519 imprese Usa (di cui 3.187 partecipazioni di controllo), sostengono circa 260.000 posti di lavoro e fatturano $143.7 miliardi.
“L’Italia è da sempre un partner affidabile per gli Usa. Puntiamo – continua Zappia – alla crescita degli investimenti nelle due direzioni, specie nei settori più innovativi, dal biotech all’economia dello spazio, dall’intelligenza artificiale ai materiali avanzati. L’Ambasciata, su impulso della Farnesina, lavora costantemente in questa direzione e lo studio è stato realizzato per offrire un quadro più aderente alla realtà della presenza italiana negli Usa e del suo contributo alla più grande economia mondiale. Si tratta di un contributo che beneficia gli Stati Uniti e al contempo genera profitti, stimola innovazione e apre prospettive di mercato più ampie per le nostre imprese: è quindi una relazione ‘win-win’ che avvantaggia entrambi i Paesi”.
L’importanza dello studio sta innanzitutto nel dare una fotografia molto più realistica della presenza italiana negli Usa di quanto non emerga dal Bureau of Economic Analysis. Le rilevazioni dell’agenzia governativa statunitense tendono viceversa a sottostimare il contributo italiano perché alcune nostre multinazionali o sono state acquisite negli ultimi dieci anni da gruppi esteri (talvolta statunitensi) o perché molte grandi imprese italiane hanno spostato oltreconfine la loro sede per motivi legati a scelte di ottimizzazione fiscale o per migliorare la governance delle attività internazionali del gruppo.
Premesso che gli ultimi dati Istat (novembre 2022) mostrano come a fine 2020 gli Stati Uniti rappresentavano il principale Paese di localizzazione degli investimenti italiani all’estero, con circa 220.000 dipendenti (quasi 158mila addetti nelle attività industriali, oltre 60mila nel terziario), secondo lo studio dell’Università di Brescia l’Italia può vantare uno stock di investimenti negli Usa superiore a quello americano in Italia ($34,3 miliardi di Ide italiani negli Usa nel 2021 rispetto ai $28 miliardi di Ide Usa in Italia). Non solo. Gli Usa sono il primo partner commerciale dell’Italia fuori dall’Europa e il secondo in assoluto dopo la Germania. Secondo i dati dello Us Department of Commerce, l’interscambio commerciale bilaterale di beni e servizi ha raggiunto nel 2022 la cifra record di $117,3 miliardi, con una crescita del 23,5% rispetto al 2021. Le esportazioni italiane negli Stati Uniti hanno raggiunto $80,5 miliardi e gli Usa generano oltre il 50% del surplus commerciale netto dell’Italia nel mondo.
Il trend si conferma positivo anche nel primo trimestre 2023, con l’interscambio di beni che cresce dell’11,4%. Le esportazioni italiane di prodotti da gennaio a marzo 2023 superano la cifra di $17 miliardi, con un aumento del 12,9%. L’export Usa verso l’Italia invece, è stato pari a $7 miliardi con un incremento dell’8% rispetto al primo trimestre del 2022.
Passando alla tipologia degli investimenti, “forte è la prevalenza dell’industria manifatturiera, dove operano 522 imprese a partecipazione italiana con oltre 145.400 dipendenti e un fatturato di $107,2 miliardi. Queste ultime cifre – dice lo studio – rappresentano rispettivamente ben oltre la metà e quasi i tre quarti dell’occupazione complessiva e del fatturato di tutte le imprese italiane a partecipazione estera”.
All’interno del comparto spiccano l’industria automobilistica (con oltre 67mila dipendenti, in gran parte determinati da gruppo Fca/Stellantis e alcuni componentisti come Brembo, Gnutti Carlo, Fiamm e Sogefi) e la meccanica strumentale, “grande punto di forza dell’industria manifatturiera italiana, che conta 119 imprese partecipate con quasi 14mila dipendenti e un giro d’affari di $7,4 miliardi” (Cnh Industrial-macchine agricole e movimento terra, Ali Group-macchine per la ristorazione commerciale, Epta-impianti di refrigerazione commerciale e Interpump-pompe ad alta e altissima pressione, componenti e sistemi oleodinamici).
Altri due settori superano la soglia dei 10mila dipendenti: l’industria alimentare e delle bevande (Ferrero, Barilla, Bolton, Parmalat, Salumificio Fratelli Beretta) e il settore che raggruppa computer, prodotti elettronici e strumentazione (Leonardo, Stmicroelectronics, Datalogic). Seguono commercio all’ingrosso e al dettaglio (su tutti il gruppo Luxottica-EssiLux e i grandi nomi della moda). Tra i settori terziari spicca la ristorazione.
Se le imprese a partecipazione italiana risultano presenti in ben 48 Stati su 50 dell’Unione, oltre che nel Distretto di Columbia, concentrando l’attenzione sulle imprese più significative, si osserva come i due terzi delle imprese a partecipazione italiana con 100 o più dipendenti si concentrino soprattutto nella costa Est (Northeast e South Atlantic raggiungono insieme il 50%) e negli Stati della regione East North Central (22%). Più in dettaglio: nello Stato di New York (21), in Illinois (19), California (17), New Jersey (16), North Carolina (13), Florida e Texas con 12, Kentucky e Pennsylvania con 11, Indiana e Michigan con 10.
Altro aspetto molto interessante che emerge dallo studio commissionato dall’Ambasciata italiana, è relativo all’origine geografica degli investitori italiani. “Dalla sola Lombardia – si legge – provengono ben 642 investitori presenti con almeno un’impresa partecipata negli Usa, corrispondenti ad oltre un terzo del totale; seguono il Veneto con 316 investitori, l’Emilia-Romagna con 297 e il Piemonte con 151. Il peso complessivo di queste quattro regioni è pari ad oltre i tre quarti dei soggetti investitori, ad oltre i due terzi delle imprese partecipate e circa al 90% dei dipendenti e del fatturato delle imprese partecipate (per queste due ultime variabili è il Piemonte a dare il contributo più significativo, in virtù delle attività del gruppo Fca-Stellantis)”.
Il prof. Marco A. Mutinelli, che da anni studia le strategie delle multinazionali italiane, spiega a L’Italo-Americano cosa emerge dal rapporto, i nostri punti di forza e i settori su cui puntare, senza dimenticare la leva del made in Italy e l’importanza delle origini italiane di chi opera sul mercato Usa. La ricerca è stata affidata dall’Ambasciata italiana al Dipartimento di Ingegneria Meccanica e Industriale dell’Università degli Studi di Brescia sotto la responsabilità del prof. Mutinelli, che è coautore di molti rapporti “Italia Multinazionale” promossi da Ice Agenzia.
D. Lo studio che ha realizzato mostra, al di là dei numeri e delle percentuali in crescita, la vitalità del Sistema Paese. Si fa impresa, si investe in mercati importanti, si ha voglia di crescere. Quali sono i nostri punti di forza?
R. Il mercato statunitense è in molti settori il principale mercato mondiale ed è inevitabile che ad esso guardino in primo luogo le (poche) grandi imprese, che negli ultimi venti anni hanno effettuato investimenti significativi (si pensi a Fiat, Enel, Leonardo, Luxottica, ecc.). Ma particolarmente vivaci sono state anche le imprese di media taglia, che costituiscono la parte più vitale dell’economia italiana, soprattutto in ambito manifatturiero. Stiamo parlando sia dei settori più tradizionalmente caratterizzati come quelli del “made in Italy” (i beni per la persona e per la casa: moda, occhiali, prodotti per l’arredamento della casa, prodotti alimentari e bevande), sia di imprese che operano nei mercati B2B producendo impianti, macchinari, attrezzature e componenti: spesso queste imprese hanno fatto i primi passi sulla scena internazionale seguendo nelle scelte di localizzazione le grandi imprese loro clienti, ma ora che hanno conquistato un posto spesso di rilievo nelle loro nicchie di mercato, si muovono per essere presenti direttamente sui principali mercati di sbocco. Se i punti di forza del “made in Italy” sono noti, quelle di queste imprese risiedono soprattutto nella capacità di dare risposte personalizzate ai loro clienti e nella qualità dei loro prodotti, che le posizionano spesso su un target di mercato più alto e sofisticato rispetto ai loro concorrenti internazionali, spesso di maggiori dimensioni e più portati a offrire sul mercato prodotti standardizzati.
D. Quali a suo parere sono i settori su cui puntare e cosa serve a queste imprese che investono nel partenariato commerciale con gli Usa?
R. Le dimensioni del mercato statunitense sono tali da offrire grandi opportunità a qualsiasi impresa che sia ben posizionata nel proprio settore e voglia espandere il proprio raggio d’azione. La presenza e il ruolo delle imprese italiane sui mercati internazionali sono spesso sottovalutati, ma chi opera con le imprese italiane conosce il loro valore e le capacità di chi vi opera. E’ dunque importante che vi siano azioni di sostegno nei confronti delle imprese italiane, sia per far conoscere meglio all’opinione pubblica e ai policy makers locali i punti di forza di un’industria che meno di altre gode della visibilità delle grandi imprese (pensiamo ad esempio all’industria tedesca, svizzera o francese), sia per introdurre nel modo migliore sul mercato locale, attraverso informazioni e contatti, le imprese che per la prima volta approcciano al mercato statunitense. Il rischio è che la conoscenza del “made in Italy” si limiti alla moda, ai mobili e al cibo, quando in realtà le eccellenze della nostra industria sono invece molto più distribuite di quanto non si pensi tra i diversi settori.
D. Come può descriverci lo stato economico della West Coast? Le multinazionali puntano su elettronica, automotive, alimentare, occhiali e pneumatici. Quali altri mercati di sbocco potrebbero avere successo?
R. Quelli da lei nominati sono settori estremamente ampi e ricchi di opportunità, che le imprese italiane possono sfruttare ancor di più di quanto stanno facendo ora, magari anche investendovi in attività produttive, visto il forte sostegno che il governo americano sta portando all’industria manifatturiera statunitense con l’obiettivo di ridurre l’enorme disavanzo commerciale del Paese e la dipendenza dalle importazioni, in particolare dalla Cina. Ma alle loro spalle vi sono filiere altrettanto importanti dove vi sono grandi opportunità per le imprese italiane: mi riferisco ad attrezzature, macchinari, impianti e componenti – i settori che sottolineavo in precedenza – dove tante sono le imprese italiane di eccellenza. Ma grandi opportunità vi sono anche nei servizi, settori nei quali le imprese italiane raramente hanno finora saputo conquistare un posto di rilievo a livello internazionale. Ci sono segnali di un certo sviluppo della presenza italiana anche in questi settori.
D. Che ruolo hanno gli italiani in California, cioè quanto conta l’origine italiana di tanti imprenditori che lavorano con imprese partecipate Usa?
R. La formazione di una forte comunità locale di manager e imprenditori di origine italiana non può che avere effetti positivi sulla presenza delle nostre imprese negli Usa: vuol dire maggiore facilità nel trovare manager per le loro filiali che già conoscono approfonditamente il mercato locale e le “regole del gioco”, riducendo così i rischi inevitabilmente connessi all'”andare all’estero” per le imprese che vi investono; al tempo stesso, questi manager e imprenditori mantengono un forte legame con il paese di origine e questo può portare a nuove opportunità per imprese italiane che ancora non sono presenti in misura significativa nella West Coast e più in generale negli Usa”. (aise)