10 anni dalle Primavere arabe: su “Affari internazionali” l’analisi di Eleonora Ardemagni

ROMA\ aise\ - “In un decennio, il Golfo è diventato il perno degli equilibri mediorientali. Non più defilata oasi in un Medio Oriente tumultuoso, ma primo attore regionale: è il “Gulf moment”. Il ribaltamento dell’ordine mediorientale, già avviato con l’Iraq nel 2003, lasciava poche alternative ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (Eau), attoniti dinnanzi alla caduta – poi assecondata dagli Stati Uniti – dei regimi alleati di Tunisia ed Egitto. Per Riad e Abu Dhabi, reagire alla fine del vecchio mondo significava plasmarne uno nuovo, fra scelte di rottura e incognite”. Inizia così “Dopo il 2011: l’età adulta delle monarchie del Golfo”, l’analisi sui 10 anni delle primavere arabe che Eleonora Ardemagni firma per l’Istituto Affari Internazionali.
Ricercatrice associata presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), Ardemagni è cultrice della materia all’Università Cattolica di Milano (Storia e Istituzioni dell’Asia Islamica), e Gulf and Eastern Mediterranean Analyst per la Nato Defense College Foundation.
Di seguito la versione integrale dell’articolo pubblicato nei giorni scorsi dallo IAI.
“Il tornante del 2011
Le rivolte popolari del 2011 hanno ridefinito gli spazi politici nell’area del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc): non più solo i tradizionali luoghi del confronto istituzionale o informale (come la Shura consultiva e le diwaniyyat kuwaitiane), ma anche le piazze fisiche e virtuali dei social media.
I manifestanti hanno gridato karama (dignità), declinandola in richieste differenziate: riforma politica ed eguaglianza (sciiti del Bahrein e della regione orientale saudita), occupazione e inclusione sociale (Oman), lotta alla corruzione (Kuwait). In Yemen, la sollevazione si è scagliata contro il progetto di “repubblica ereditaria”: il presidente Ali Abdullah Saleh organizzava la staffetta presidenziale con il figlio, in un sistema di potere ormai insostenibile.
La strategia di contro-rivoluzione dell’Arabia Saudita ha mescolato sussidi e redistribuzione della rendita, tecniche di divide et impera, controllo sociale rafforzato e, in alcuni casi, l’inedito intervento militare diretto. Additando il complotto iraniano, i sauditi hanno prosciugato le contestazioni in Bahrein e nell’est del regno. Il religioso sciita saudita Nimr al-Nimr è stato giustiziato, la principale società politica sciita bahreinita, al-Wefaq, messa fuorilegge (2016). L’Oman ha sedato le proteste sociali nelle città del nord (Sohar), in Kuwait riaffiorarono sporadici i sit-in anti-corruzione o quelli dei bidun (arabi apolidi), riammessi nell’esercito solo dal 2018. Fuori dal Gcc, re Abdullah in Giordania ha coniugato repressione e cooptazione, drenando la contestazione nonostante gli scarsi aiuti finanziari dei vicini.
Lo Yemen è il grande fallimento dei sauditi. L’intervento di Riad ha regionalizzato un conflitto interno, figlio di una transizione politica deragliata. Oggi, i ribelli huthi sono dentro le istituzioni (seppur non riconosciute) e militarmente più temibili.
Tre partite intrecciate
Le rivolte hanno quindi costretto i governi del Gcc a misurarsi con un’insidiosa onda d’urto transnazionale. I monarchi del Golfo hanno risposto provando a territorializzare il potere, costruendo Stati-nazione con le tradizionali leve del Novecento: tasse (seppur indirette) e coscrizione militare. Un’operazione da equilibristi. Il Golfo, infatti, non si misura solo con gli assetti regionali, ma anche con la trasformazione economico-sociale “oltre gli idrocarburi” (le Visions) e le successioni al trono.
Nelle odierne monarchie post-oil, i cittadini devono pagare l’Iva (in Arabia, Eau, Bahrein; in Kuwait e Oman dal 2021) e fare il servizio militare obbligatorio (in Eau, Qatar e Kuwait), mentre il remunerativo e prestigioso impiego pubblico non è più garantito. Leader (più) giovani per anagrafe, visione e strategie di comunicazione guidano processi di modernizzazione ancora autoritari poiché “dall’alto”. L’attivismo, o meglio il contributo dei cittadini al cambiamento, è permesso solo sui temi, negli spazi e nei tempi autorizzati (vedi il saudita Mohammed bin Salman, Mbs).
Il sovrano politicamente più longevo è ora il 70enne re del Bahrein, sul trono dal 1999: dal 2013, sono cambiati quattro sovrani su sei, tra un’abdicazione e tre decessi (Qatar, Arabia Saudita, Oman, Kuwait). Insomma, al netto della pandemia da Covid-19, per Riad e dintorni sono cambiati tre mondi – regionale, economico-sociale e di potere – in appena un decennio.
Oltre il soft power: assertività militare e nation-building
Per le monarchie del Golfo, il risveglio post-2011 è stato brusco. Abituate a una florida stabilità derivante da rendita energetica e protezione statunitense, il passaggio dalla prudenza conservatrice all’intraprendenza multi-direzionale è equivalso a un rapido ingresso nell’età “adulta” della politica.
Il tradizionale soft power dei monarchi del Golfo (finanziario, religioso-culturale), è sempre necessario, ma non più sufficiente. Per incidere nei teatri di crisi, rivaleggiando con Iran e Turchia, servono ora le armi, i proxies e, a volte, i propri soldati o piloti. Più un forte senso di comunità e nazione, veicolato dall’accento nazionalista e dalla nuova “ossessione” per cultura, tradizione e identità: le radici di ieri come bussole per il domani.
Una società coesa facilita la politica estera, proiettando un’immagine globalmente riconoscibile e attrattiva. Così si può negoziare (quasi) alla pari con i partner del sistema multipolare e post-americano: Cina, India e Russia.
Soli al timone, verso nuove incognite
La “Gulfization”, ovvero la capacità del Golfo di influenzare l’area Mena (incluso il Corno d’Africa) più di quanto quest’ultima riesca a condizionarlo, è fin qui riuscita: le monarchie sono oggi esportatrici di soft e hard power. Ma sono anche politicamente più esposte e vulnerabili. La presidenza Trump ha offerto l’illusione della protezione esterna: tanti accordi militari, ma nessuna reazione quando Saudi Aramco è stata pesantemente attaccata (2019). Poi, Stati Uniti e Israele hanno di fatto consegnato le chiavi della sicurezza mediorientale ad Arabia ed Emirati (vedi l’annunciata vendita degli F-35 agli Eau).
Abu Dhabi e soprattutto Riad hanno così rielaborato l’approccio a religioni e identità confessionali: moderazione e tolleranza incentivano investimenti e turismo. L’effetto indiretto di “Vision 2030” potrebbe essere la de-settarizzazione: in un’epoca di mega-progetti e nation-building, non conviene inasprire i rapporti interni con gli sciiti. La richiesta implicita delle leadership potrebbe includere però la rinuncia alle “identità altre”: quindi centralizzazione nazionale e un ulteriore colpo al pluralismo culturale.
Due sono le dinamiche da osservare: il potenziale rigetto delle riforme da parte dei segmenti sociali più conservatori (con il rischio di un rigurgito jihadista) e l’evoluzione del rapporto con gli expatriates (i lavoratori immigrati), da ripensare nell’era post-oil.
Dieci anni dopo le rivolte che hanno cambiato il mondo arabo, l’età “adulta” della politica nel Golfo è ancora una storia dal finale aperto”. (aise)