Italiani all’estero: si sta consumando uno strappo nei rapporti con la politica italiana? - di Carmelo Vaccaro

GINEVRA\ aise\ - Negli ultimi decenni, la presenza italiana all’estero è cresciuta in modo costante, trasformandosi da fenomeno legato all’emigrazione storica a realtà moderna e dinamica, fatta di nuove mobilità, competenze, legami economici e culturali. Oggi gli italiani residenti fuori dai confini nazionali sono oltre sette milioni, una popolazione che costituirebbe, per numero, la terza regione d’Italia. Eppure, a fronte di una comunità così vasta e articolata, il rapporto con lo Stato italiano sembra sempre più segnato da freddezza, distacco, e, in alcuni casi, da una preoccupante ostilità.
È ormai evidente un progressivo deterioramento dell’attenzione politica verso i connazionali all’estero. Si è passati da una trascuratezza “silenziosa” a segnali più espliciti di disinteresse, se non di disapprovazione. Ma a preoccupare oggi non è solo la scarsità di risorse o l’inefficienza strutturale. Ciò che ferisce maggiormente è il cambiamento del tono politico, il clima culturale che si respira. I segnali si moltiplicano. L’introduzione, o il mantenimento, di tasse come l’IMU sugli immobili di proprietà in Italia, anche se disabitati per undici mesi all’anno, o il Canone Rai inserito automaticamente nella bolletta elettrica, anche per chi non vive nel Paese, sono percepiti come ingiustizie fiscali che colpiscono indiscriminatamente chi ha lasciato l’Italia. Il tutto senza un’adeguata rappresentanza o voce decisionale nei processi legislativi.
La recente proposta di revisione della legge sulla cittadinanza italiana, approvata dal Consiglio dei Ministri lo scorso 28 marzo, ha ulteriormente inasprito il clima. Le modifiche riguardano il principio dello ius sanguinis, che permette il riconoscimento della cittadinanza italiana ai discendenti di emigrati. Si tratta di una norma che, pur con criticità tecniche, rappresenta un ponte simbolico e giuridico tra l’Italia e la sua diaspora. Metterla in discussione equivale, agli occhi di molti, a recidere quel filo invisibile ma tenace che lega milioni di persone alla propria origine.
A tutto questo si aggiungono, in tempi recentissimi, alcune dichiarazioni provenienti da figure istituzionali di alto profilo, tra cui la seconda carica dello Stato e un Ministro della Repubblica, che hanno lanciato messaggi ambigui e divisivi in merito al Referendum dell’8 e 9 giugno. Parole che, seppur magari dette in contesti politici interni, si ripercuotono duramente sugli italiani all’estero, dando l’impressione che la partecipazione di questi ultimi sia sgradita o considerata di “serie B”.
Si tratta di un clima che, all’estero, viene percepito con crescente preoccupazione. Le comunità italiane nei diversi continenti non nascondono il proprio senso di frustrazione, la delusione e, in alcuni casi, una rabbia trattenuta. In tanti continuano a difendere il legame con l’Italia, a promuovere con orgoglio la lingua, la cucina, l’arte e i valori italiani. Ma il senso di appartenenza, se continuamente messo alla prova, rischia di trasformarsi in distacco.
Ci si domanda, sempre più spesso, se l’Italia stia voltando le spalle ai suoi figli emigrati. E non si tratta solo di una questione affettiva. Gli italiani all’estero contribuiscono in maniera concreta al benessere economico e sociale del Paese: promuovono il Made in Italy nei mercati internazionali, sostengono il turismo di ritorno, attraggono investimenti, e rappresentano una risorsa strategica per la diplomazia culturale. È dunque miope, e potenzialmente dannoso, ignorare le loro esigenze o, peggio, considerarli cittadini di seconda categoria.
È legittimo che l’Italia, come ogni Stato sovrano, voglia regolamentare l’accesso alla cittadinanza e riformare i propri servizi consolari. Ma queste scelte devono essere frutto di un dialogo serio e rispettoso, non di decisioni unilaterali o dichiarazioni sprezzanti. Per questo esiste il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (CGIE), organo eletto importante nel panorama politico italiano. Servono politiche inclusive, attente, moderne, capaci di valorizzare la presenza italiana nel mondo come una risorsa e non come un problema.
Perché se è vero che molti italiani all’estero si sono perfettamente integrati nei Paesi di accoglienza, è altrettanto vero che l’identità italiana rimane viva, coltivata con orgoglio, tramandata alle nuove generazioni. È un’identità che non può essere svilita da battute superficiali o atteggiamenti da palcoscenico. Rispettarla significa rispettare la storia, la cultura e l’impegno civile di milioni di persone che, pur vivendo lontano, continuano a sentirsi parte integrante del destino italiano.
L’auspicio, e forse oggi anche la richiesta, è quella di un riavvicinamento sincero. Di un nuovo patto morale e politico tra l’Italia e i suoi cittadini nel mondo. Perché solo riconoscendosi a vicenda come parte della stessa comunità si può evitare che quello che oggi è uno strappo rischi di trasformarsi, domani, in una rottura irreparabile. (aise)