“Italia Brutalista. L’Arte del Cemento” in mostra a Rio de Janeiro

RIO DE JANEIRO\ aise\ - Non tutto ciò che è imponente è arrogante. Non tutto ciò che è spoglio è povero. E non tutto ciò che è dimenticato è privo di valore. “Italia Brutalista. L’Arte del Cemento”, la nuova mostra promossa dall’Istituto Italiano di Cultura di Rio de Janeiro, allestita presso il Polo Culturale Italiano Rio, restituisce voce, dignità e potenza simbolica a un linguaggio architettonico troppo a lungo frainteso: il brutalismo.
La mostra apre oggi, 4 luglio, al pubblico e sarà allestita sino al 29 agosto con ingresso libero.
Il termine brutalismo nasce nel dopoguerra da una provocazione semantica: béton brut, il cemento grezzo tanto caro a Le Corbusier, divenne il fondamento di un’estetica che rifiutava gli orpelli, rivendicando l’autenticità dei materiali e l’onestà strutturale come valori morali. Come scriveva Reyner Banham, storico e voce radicale della critica architettonica del Novecento, nel suo celebre saggio The New Brutalism, il brutalismo è meno uno stile e più un’etica, un modo di fare architettura che rivela struttura, funzione e materiali senza compromessi.
È in Italia che questo linguaggio assume un carattere unico e inconfondibile. In una nazione attraversata da memorie millenarie, le strutture brutaliste non rappresentano solo un futuro da edificare, ma anche un passato da integrare, rielaborare, perfino redimere. In questo senso, come sottolinea Adrian Forty, professore emerito di storia dell’architettura alla Bartlett School of Architecture di Londra, gli architetti italiani si sono distinti dai loro colleghi all’estero soprattutto nella volontà di riconoscere che il cemento possa riferirsi a più di un’epoca, rappresentando contemporaneamente passato e futuro.
La mostra presenta sessanta immagini straordinarie realizzate da Roberto Conte e Stefano Perego, due fotografi italiani che, in oltre cinque anni di ricerca, hanno percorso più di ventimila chilometri da nord a sud della penisola per documentare opere sorprendenti. Le loro inquadrature restituiscono la forza scultorea e la drammaticità narrativa di edifici come la Casa del Portuale di Napoli, il Santuario di Monte Grisa a Trieste, le Lavatrici di Genova, il cimitero di Jesi, il Tribunale di Salerno o il Palazzo del Lavoro a Torino.
Edifici che furono, alla loro epoca, manifesti sociali, tentativi di democratizzazione dello spazio urbano, risposte architettoniche a una società in trasformazione. Oggi, queste stesse architetture parlano una lingua dura ma necessaria, fatta di volumi netti, superfici ruvide, geometrie non riconciliate. “Non ci interessa l’armonia convenzionale, cerchiamo un ordine più profondo, fatto di contrasti e tensioni”, dichiaravano Alison e Peter Smithson, architetti britannici tra i fondatori del movimento.
Il brutalismo italiano ha espresso una pluralità di visioni: da Giancarlo De Carlo a Vittorio Gregotti, da Gino Valle a Carlo Aymonino, fino ad architetti meno noti ma non meno radicali. La sua eredità, oggi rivalutata internazionalmente, rappresenta una sfida critica e poetica allo stesso tempo: come rendere visibile l’invisibile della società? Come costruire, letteralmente, i legami tra spazio e giustizia, tra forma e senso?
La mostra si propone come un’esplorazione lenta e stratificata, accompagnando il visitatore in un viaggio visivo e concettuale. Le fotografie, tratte dal volume “Brutalist Italy”, sono qui curate in un percorso che restituisce contesto, profondità e senso storico.
Più che una mostra, “Italia Brutalista. l’Arte del Cemento” è un invito a guardare con occhi nuovi ciò che credevamo di conoscere. A leggere nel cemento non solo un materiale, ma una scrittura. A scoprire, tra geometrie spigolose e superfici ruvide, il riflesso di un’epoca che ha avuto il coraggio di pensarsi eterna. Come ha suggerito Paul Rudolph, figura centrale del brutalismo americano, il brutalismo non è una moda, ma un tentativo di restituire all’architettura il ruolo di arte responsabile e consapevole. (aise)