La collettiva di arte contemporanea “Mater Mundi” al Museo archeologico SanPaolo di Monselice

PADOVA\ aise\ - Dal 18 maggio scorso e sino al 15 giugno il Museo archeologico SanPaolo di Monselice, in provincia di Padova, ospita la collettiva di arte contemporanea Mater Mundi a cura di Barbara Codogno.
In esposizione oltre una quarantina di opere che spaziano dalla pittura figurativa alla scultura e all’installazione. Tredici gli artisti, provenienti da tutta Italia: Tobia Ravà, Chandra Fanti, Angelo Giordano, Fabrizio Vatta , Aldo Ghirardello, Greta Bisandola, Viviana Di Domenico, Stefano Reolon, Ruggero D’Autilia, Roberta Ubaldi, Enrica Berselli, Alice Padovani, Silvia Patrono.
Mater Mundi è espressione latina, letteralmente "Madre del Mondo". La Madre è spesso associata alla figura della Terra come generatrice e nutrice di vita. In molte tradizioni religiose, la "madre del mondo" rappresenta una divinità o un principio femminile che nutre e sostiene la vita. Questo concetto ha radici profonde spesso associato a figure femminili che simboleggiano la fertilità, la creazione e la rigenerazione. “Non dimentichiamoci – spiega la curatrice – che Mater Mundi è vita e morte in continua alternanza. Gaia, Diana, Iside, Kali, Cibele, Demetra sono divinità che governano anche il pulsionale e il regno della morte. Manifestazioni del femminile con una parte profonda e selvaggia legata alla natura, alla bestialità, al corpo e all’erotismo. Talvolta queste divinità appaiono sotto forma di animale e in generale stringono alleanze col mondo naturale; legami che sigillano l’origine nella creazione mitica”.
La mostra dialoga con il Museo, trovando nella Sala della Buona Morte la sede espositiva per le opere pittoriche, molte di grandi dimensioni. L’allestimento realizzato dalla curatrice costruisce all’interno della sala una sorta di utero in acciaio composto da griglie metalliche in assonanza con gli interventi utilizzati per il restauro del museo e con la componente architettonica della Sala della Buona Morte, realizzata nel 1700.
Mentre alcune sculture e installazioni contemporanee contageranno l’area in cui sono esposti i reperti archeologici museali (reperti dall'Alto Medioevo al Settecento e una collezione epigrafica che comprende iscrizioni romane sepolcrali) creando una sorta di effetto “fake”. Le opere qui esposte sembrano falsi reperti, oggetti visionari e perturbanti a cavallo tra mito e ibridazione.
Chandra Fanti trionfa con Ego sum, opera icona della mostra, tela dalle dimensioni importanti e dall’impianto scenico onirico, metafisico e surreale che infonde un forte trasporto spirituale ed emotivo. L’artista è regina di ultra-mondi ai quali ci introduce cromaticamente attraverso i suoi rossi e i blu assoluti. Un cavallo d’ebano dalla muscolatura vibrante e tesa -possiamo ancora percepire l’umido del sudore dopo la corsa di cui è impregnato il suo manto di velluto, quasi lo sentiamo nitrire dalla narici infuocate- staziona immobile sopra a una scacchiera che s’infiamma per l’energia sprigionata dall’animale. Lui è immobile ma noi lo sentiamo correre. Siamo al cospetto di un dio, un cavallo nero dalla testa di fuoco. “Vieni dal cielo profondo o esci dall'abisso, Bellezza?” scrive Baudelaire in una delle sue più potenti poesie. “Io sono colui che sono” arde di un fuoco che governa l’intero paesaggio, arroventando finanche le colline in lontananza. Per poi straziarci il cuore di incommensurabile bellezza con quel varco azzurro del cielo. In questa mostra Chandra Fanti espone inoltre una teoria di ritratti composti a partire dalla sua riflessione su Maria.
Troviamo due grandi opere di Stefano Reolon in tempera grassa su tela e collage. L’artista cavalca il corpo tra Rembrandt e Michelangelo con perfetta padronanza dell’anatomia e utilizzo di materia pittorica che realizza secondo precetti e ricettari antichi. Alla classicità dell’impianto contrappone una forte spinta contemporanea che vede i suoi corpi nudi in continua torsione avvilupparsi tra loro, dando vita a una poetica che celebra la bellezza e il trionfo della carnalità.
Angelo Giordano in questa mostra espone due lavori. Homodeus, ovvero l’ultima metamorfosi dell’uomo, oggi trasfigurato in dio e La caduta delle anime. Così come Lucifero era il più bello degli angeli prima di metamorfizzarsi in entità bestiale, così per Giordano le anime cadute sono un grumo placentare di neonati urlanti. Di fatto sovverte l’alto e il basso, combaciando esattamente con la dimensione del sacro. Cortocircuitando la caduta in una messa al mondo, riportando la morte alla sua primigenia dimensione uterina. L’uomo dio ovvero l’Homodeus è corpo sdoppiato nell’abbondanza di carne debordante che ridisegna la corporeità, strappa la fisicità per gonfiarla e annichilirla: l’uomo giace senza più volto, soltanto natiche e spalle di carne burrosa. Inconsolabile.
Greta Bisandola in questa mostra presenta al pubblico due lavori. Madre e Fantasima. Il primo è il ritratto della madre, la seconda opera è un ritratto di donna con un volto di bambina. Madre contempla un invaso organico che si aggruma nel corpo, soprattutto nella zona toracica dove rintracciamo tracce ematiche coagulate in fiori alpini, andando così a delineare le alte vette del cuore materno. Il ventre è anch’esso una concrezione di piante e terriccio, mentre il volto trasmuta gradualmente e risorge nella vividezza degli occhi chiari, cristallini, immutati in un quel corpo che invece vira inesorabile verso il divenire. Fantasima ha invece fianchi larghi e corpo accogliente, un seno prosperoso e vibrante ma un volto da bambina paffuta e occhi spalancati in posa bambolesca. Bisandola fissa sulla tela immagini che spiegano il tempo, in continua metamorfosi di senso, scioglie il corpo in un distillato di verità incontrovertibile ma che si rimette al mondo perché già altro.
Anche Alice Padovani frequenta il sottomondo brulicante di insetti e di anime in continua metamorfosi. L’artista sembra essere affascinata dallo scarto: propone gusci d’uova svuotati, la pelle dopo la muta, il bozzolo residuale abbandonato dalla larva o dalla farfalla, così come la corazza degli insetti, e le conchiglie. Restano i reperti di una vita organica che ora è coinvolta un'altra dimensione, concorrendo alla nascita di forme emissarie. Nelle due opere della serie “innesti” l’artista lavora su uova d’oca nelle quali ha insertato scheletri di molluschi marini, presumibilmente le spine acuminate di ricci. L’effetto è un uovo con corona di spine. Un uovo messianico partorito nel dolore.
Enrica Berselli espone la scultura The Purge. Protagonisti il bezoar, ovvero la concrezione che si forma nell'apparato digerente dei ruminanti e la borra, formazione compatta di resti di cibo non digeribile, composta da peli, penne, ossa e chitina di insetti. Questo "scarto", viene rigurgitato al termine del processo digestivo, dalla cavità orale degli uccelli. Così l’artista si interroga sulla possibilità di espellere fuori dal sé quanto danneggia per trattenere solo ciò che è nutrimento. Mentre Eradicata è una meravigliosa miniatura che per l’autrice staziona tra riti dionisiaci e fusione panica. Qui, due piedi femminili, di un bianco cadaverico, si fondono col verde marciume del sottobosco. La donna è morta e sta per essere sepolta o sta risorgendo, rimessa al mondo dal grembo del bosco? Forse entrambe le cose giacché la fusione panica a cui accenna Berselli altro non è che concetto letterario, in particolare associato alla poetica di Gabriele D'Annunzio, che descrive la profonda e totale unione tra l'individuo e la natura. In questa fusione, l'uomo si sente parte integrante del mondo naturale, diventando parte di un unico organismo.
Ruggero D’Autilia propone due dittici scanditi entrambi da una presenza femminile che rappresenta segni di sofferenza e da un cielo a metà tra il sereno e il minaccioso, ora gravido ora sgravato di pioggia. Per l’autore gli umori corporei e le nuvole sono in relazione con il ciclo dell’acqua, sudore e lacrime sono espressioni di emozioni profonde. I dittici esposti riflettono un nesso alchemico tra femminile e natura. La dimensione naturale esalta infatti il collegamento profondo tra la donna e il cielo. D’Autilia è pittore colto che ama la citazione. In questo caso i due ritratti femminili proposti da dall’autore sono il rifacimento di due opere di Pietro Antonio Rotari, pittore scaligero noto per aver creato una galleria di “passioni”, ritratti a mezzo busto che esprimono vari stati d’animo. Rotari fu un pittore barocco del 1700, epoca che vede la creazione della Sala della Buona Morte in cui è esposto D’Autilia.
Silvia Patrono presenta una grande tela (Courtesy of Gallery AD Dal Pozzo Galleria d'Arte) dal titolo Rapsodia fiorita dove una donna agghindata da fiori e arbusti è seminascosta dietro a un albero, mentre un giovane cervo alle sue spalle si allontana veloce. La donna sembra fondersi, diventare tutt'uno con l'albero, lei stessa elemento naturale del bosco. Il tema della donna-albero è una costante mitica e tutta la scena, così avvolta di luce accecante, sembra proprio suggerirci il mito del bagno di Diana, la Dea della caccia. La dea, vista nella sua nudità da Atteone, lo trasforma in giovane cervo che sarà sbranato dai cani da caccia con i quali l’uomo si era avventurato nel bosco, violandolo. Così come lo sguardo sulla nudità, la parte più segreta della dea, è violazione del limen sacro.
Roberta Ubaldi ha una cifra stilistica unica nel suo genere. Il trittico che propone in questa collativa sono opere realizzate tutte in olio su lamiera ossidata. Un grembo gravido, un cuore e un teschio. Per l’autrice rappresentano il ciclo della vita terrena. Un cuore, tempio dell’amore, una nuova vita in grembo ed il teschio come fine del passaggio terreno. I tre lavori di Roberta Ubaldi rendono visivo il continuo mutamento che il tempo esercita su ogni cosa e la ruggine è la sua perfetta metafora.
Torna anche con Fabrizio Vatta l’idea di grembo. Stavolta è il mare. Qui dove una donna nuota, in un dipinto è con la testa immersa nell’acqua, in un altro è con il corpo galleggiante, braccia e gambe spalancate, e la testa rivolta verso il cielo. Il rito iniziatico di fusione tra donna e acqua, il rimettersi al mondo del femminile attraverso l’acqua informata, precetto cabalistico che ha memoria viva del ventre amniotico, è rituale che il femminile compie anche nei piccoli gesti quotidiani, come il bagno.
Una foresta di simboli iniziatici popola il lavoro di Tobia Ravà che nella ghematrià -un sistema numerico in cui le lettere dell’alfabeto ebraico corrispondono a numeri- ha trovato l’ispirazione creativa per suggerire nuovi orizzonti percettivi. I lavori di Ravà sottendono un percorso visivo che vuole aprire nuove porte alla luce della conoscenza. In questa mostra Ravà propone Varco celeste, omaggio all’architetto Mario Botta. L’immagine raffigura in chiave cabalistica il varco del tempietto ricostruito dall’architetto Botta a Mogno, in alto Ticino, al posto di una chiesetta distrutta da una valanga. Va ricordato che Il Museo SanPaolo a Monselice fu restaurato proprio da Botta che ne edificò anche la fontana. Porta inoltra una scultura in bronzo, una carpa, e un bosco ovale.
Aldo Ghirardello propone un’opera che si sviluppa in verticale sui toni asettici del grigio e del bianco sporco. Il dipinto intitolato “La culla” si muove su un registro emotivo profondo, in cui la rappresentazione dell'infanzia, attesa o perduta, diventa fonte di riflessioni più ampie sulla maternità, sull'assenza e sulla sospensione del tempo. L'opera, pur evocando un oggetto familiare e quotidiano, lo immerge in un’atmosfera enigmatica: i toni smorzati, i contrasti cromatici ridotti e l’ambientazione indefinita sottraggono la scena alla narrazione diretta, per immergerla in una dimensione perturbante. La scena è sospesa in un punto indifendibile di una storia. Qualcosa di drammatico è accaduto o sta per accadere.
Viviana Di Domenico espone Matriarca. Si tratta di un teschio composto da corpi minuti, feti, rose e forme embrionali. Nel suo comporre l’opera, l’autrice ricorda la figura nota in antropologia con l’appellativo della Huesera, ovvero la donna che raccoglie ossa nel deserto per poi comporre scheletri in grado di richiamare in vita i morti. Figura analizzata anche da Pinkola Estés nel suo celebre “Donne che corrono con i lupi” dove la scrittrice esplora l'anima selvaggia femminile, intrecciando fiabe, mitologia e psicologia per offrire un viaggio di scoperta interiore.
Mentre nelle due sculture titolate Epica di una dinastia minore l’autrice propone una sorta di araldica organica, testimonianza dell’importanza del corpo nella stratificazione dell’essere e della memoria. (aise)