“Now We Have Seen: Women and Art in 1970s Italy”: a New York una giornata di studi

NEW YORK\ aise\ - Sabato 27 aprile si terrà a Magazzino Italian Art Museum una giornata di studi, aperta al pubblico e visibile in diretta on line (a questo link), su arte e femminismo nell’Italia degli anni Settanta e le sue attuali ripercussioni. Interverranno cinque importanti studiose italiane, autrici del volume Now We Have Seen: Women and Art in the Seventies in Italy, dedicato all’analisi delle molteplici tematiche riguardanti le tendenze artistiche, sociali e politiche degli anni Settanta, che ancora si riverberano oggi.
Il volume è frutto di un progetto di ricerca avviato nel 2022 dalla Biblioteca Hertziana, Istituto Max Planck per la storia dell’arte di Roma, con il sostegno dell’Italian Council, Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura Italiana con la curatela scientifica di Giorgia Gastaldon.
In collaborazione con queste istituzioni, Magazzino Italian Art offrirà al pubblico l’opportunità di ascoltare gli interventi delle studiose che hanno dato vita al volume: la curatrice Giorgia Gastaldon e le autrici dei saggi Silvia Bottinelli, Maria Bremer, Lara Conte e Raffaella Perna.
“Il titolo di questo fondamentale libro, che dà anche il titolo alla nostra giornata di studi, è tratto da una frase del Manifesto di Rivolta Femminile del 1970: “Abbiamo guardato per quattromila anni: adesso abbiamo visto!” Il passaggio dal verbo “guardare” al verbo “vedere” quale indicatore di una svolta dal passivo all’attivo, è la testimonianza della crescente autoconsapevolezza delle artiste dell’epoca e della loro richiesta di cambiamento”, spiega Filippo Fossati, direttore di Magazzino. “Durante il convegno verrà affrontato il tema dell’emancipazione femminile negli anni Settanta nel suo rapporto con le arti visive attraverso l’enucleazione di una serie di macrotemi, che porterà a una più ampia analisi critica e storica degli strumenti e dei paradigmi di questa stessa emancipazione”.
Sarà lo stesso direttore Fossati a introdurre i lavori, che si apriranno alle ore 11.30 e proseguiranno sino alle 17.00 con gli interventi delle relatrici: Giorgia Gastaldon, ricercatrice T.D. in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università dell’Insubria a Varese-Como, con “Weaving and Stitching: Female and Feminist Practices in Italian Abstract Art in the 1970s”; Silvia Bottinelli, professore associato e direttore del dipartimento di Visual and Material Studies presso la School of the Museum of Fine Arts della Tufts University, “Behind the Window in Postwar Italian Art: Reframing a Metaphor”; Maria Bremer, ricercatrice post-PhD presso la Ruhr-Universität di Bochum, “Recognition Across Time: “Herstories” in Exhibitions (1970s/2020s)”; Raffaella Perna, ricercatrice in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma, “Photobooks and Feminism in Italy in the 1970s”; e Lara Conte, professore associato in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università Roma Tre, “Sculpture Practices and Feminist Perspective, from the Historical Dimension to the Present: Genealogies and Reception”.
Sono previste sessioni di domanda e risposta alla fine della mattinata e del pomeriggio, con una pausa pranzo.
L'evento fa parte dell'omonimo progetto di ricerca sostenuto dall’Italian Council (2022), Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura Italiana.
“Weaving and Stitching: Female and Feminist Practices in Italian Abstract Art in the 1970s” di Giorgia Gastaldon
Durante gli anni Settanta, molte artiste, spinte anche da istanze femministe, rivalutarono quelle pratiche artigianali tradizionalmente considerate femminili, come il cucito, il ricamo e la tessitura, ponendole al centro di un rinascimento creativo in un periodo in cui si andava sviluppando una maggiore coscienza di genere. Come evidenziato da Rozsika Parker nel suo importante libro sul ricamo e la costruzione del femminile (1986), tali espressioni creative non furono storicamente recepite come arte, ma “solo come espressione dell’essere femminile”, e pertanto “considerate semplice artigianato”. In questa cornice, a un dato momento, l’impiego di tecniche appartenenti alla vita quotidiana femminile svolse la funzione di strumento espressivo e assunse un valore politico, in quanto veniva dato risalto a una pratica che altrimenti sarebbe rimasta emarginata. Questo si registrò soprattutto nel lavoro di alcune artiste astratte, sulle quali verterà il presente intervento. Prendendo in esame la ricerca di alcune artiste italiane attive sul territorio negli anni Settanta, come Carla Accardi, Renata Boero e Maria Lai, la studiosa Giorgia Gastaldon farà luce sulla possibilità che l’arte astratta abbia davvero rappresentato, per determinate artiste, uno spazio di maggiore agio e libertà creativa, data la sua intrinseca neutralità in quanto arte ripulita da tutti quegli elementi iconografici che nel tempo avevano celebrato una lunga serie di imprese maschili. Inoltre, l’appropriazione da parte di queste artiste delle pratiche tradizionali femminili dimostra la possibilità di stabilire una correlazione tra l’arte astratta e i processi di rivendicazione di genere, attingendo alla lunga e antica tradizione dell’esperienza femminile, rinnovata e reinterpretata alla luce delle esigenze più contemporanee.
“Behind the Window in Postwar Italian Art: Reframing a Metaphor” di Silvia Bottinelli
L’opera di Luciano Fabro Tre Nudi che scendono le scale (1988), in esposizione al Magazzino Italian Art, consiste di due lastre di marmo curve poste trasversalmente ad alcuni gradini, di fronte a una finestra. Come affermato dalla curatrice Carolyn Christov-Bakargiev, la scultura “rimanda all’esperienza del mondo esterno”. La presente analisi prenderà spunto dall’opera di Fabro con l’intento di aprire una finestra sull’arte italiana del dopoguerra, rivolgendo in particolare lo sguardo alla produzione femminista. La metafora della finestra di casa, dietro cui in genere si nasconde una donna, era già presente nel linguaggio critico di Anne Marie Sauzeau e nella cornice curatoriale di Lea Vergine negli anni Settanta. Le finestre compaiono anche nelle opere di Carla Accardi, Diana Bond, Chiara Diamantini e Cloti Ricciardi, tra le altre. Storicamente, sono state proprio le finestre a permettere le restrizioni sociali per le donne. Secondo la filosofa e attivista Silvia Federici, fin dal Cinquecento, le donne sono state costrette a limitare i loro contatti con la sfera pubblica per dedicarsi esclusivamente al proprio nucleo familiare: “Principalmente, era loro richiesto di fare dei mariti e delle case il centro delle loro attenzioni, motivo per cui non dovevano passare il tempo alla finestra o alla porta”. Nell’Ottocento, come osserva Frances Borzello, l’iconografia della donna alla finestra “sottolinea la sua posizione nella società, una posizione simile a quella di un uccello in gabbia”. Le finestre potrebbero così aver contribuito all’idea di trappola piuttosto che di esplorazione, rafforzando l’associazione con il controllo patriarcale. Partendo da teorie e studi precedenti, questa presentazione esaminerà le modalità con cui le artiste hanno integrato e decostruito l’iconografia della finestra in Italia negli anni Settanta e Ottanta, in un momento di crescente emancipazione e consapevolezza del secolare confinamento delle donne nella sfera domestica.
“Photobooks and Feminism in Italy in the 1970” di Raffaella Perna
In continuità con i temi affrontati nel workshop tenutosi alla Bibliotheca Hertziana di Roma nel giugno 2023, la presente trattazione proporrà una riflessione sui libri fotografici femministi pubblicati in Italia negli anni Settanta. Il termine “libro fotografico” si è diffuso ampiamente a partire dagli anni Duemila, grazie a un gran numero di pubblicazioni, festival, workshop, fiere, siti web e iniziative editoriali. Il termine, tuttavia, è stato spesso utilizzato per indicare, senza troppe distinzioni, un’ampia tipologia di testi contenenti fotografie, realizzati indifferentemente per scopi estetici, politici e sociali. Tale consuetudine ha generato un’uniformità fuorviante che, come ha osservato Elizabeth Shannon, “offusca le origini storiche, culturali e ideologiche dei singoli libri, pregiudicando la nostra capacità di valutare la natura e il valore del libro fotografico”. In ragione di ciò, analizzando la storia dei libri fotografici femministi pubblicati in Italia negli anni Settanta, nel corso di questo studio verranno esaminate non solo le forme materiali e simboliche di questi libri, ma anche i loro contesti di produzione e circolazione, l’itinerario delle fotografe e il loro rapporto con il neofemminismo italiano. Piuttosto che la prospettiva orizzontale ed enciclopedica adottata da molte e recenti pubblicazioni dedicate alla storia del libro fotografico e del libro d’artista, verrà proposta un’analisi circostanziata, a partire dal confronto con una selezione di libri fortemente esemplificativi della relazione tra fotografia, libro d’artista e politica femminista nel contesto culturale italiano degli anni Settanta. Si procederà ad analizzare alcuni libri fotografici che, pur appartenendo alle diverse tradizioni del documentario e della neoavanguardia, sono espressione delle istanze di profondo cambiamento sociale e culturale emerse con il femminismo. Perché, in questo periodo, così tante artiste e fotografe vicine al pensiero e alla pratica politica del femminismo scelgono come medium il libro? Quali sono i canali di produzione e diffusione di queste pubblicazioni e come vengono recepite nel contesto dell’arte, della fotografia e della militanza? Cosa si intende con l’espressione “libri fotografici femministi”? Quest’ultima definizione si riferisce solo ai testi pubblicati in stretta continuità con il Movimento delle donne, o è possibile ampliare il campo di indagine oltre il mero ambito dell'attivismo?
“Sculpture Practices and Feminist Perspective, from the Historical Dimension to the Present: Genealogies and Reception” di Lara Conte
L’analisi verterà sul tema della genealogia e sulle questioni legate alla ricezione, concentrandosi in particolare sulla ricerca riguardante alcune artiste menzionate in Now We Have Seen: Women and Art in 1970s Italy e su come questa ricerca sia al centro di un rinnovato interesse e scambio transgenerazionale che ci permette di soffermarci sul proficuo intreccio tra pensiero femminista, storia dell’arte, scrittura curatoriale e riflessione sull’archivio come pratica non lineare. Emblematica in tal senso è stata la mostra Io dico Io / I say I, che Lara Conte ha curato insieme a Cecilia Canziani e Paola Ugolini alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 2021. La mostra ha riunito più di cinquanta artiste italiane di diverse generazioni che in contesti storici e sociali differenti hanno portato avanti la loro “avventura di autenticità”, restituendo la loro prospettiva femminista attraverso una costellazione di visioni. A partire dal titolo, la mostra ha posto al centro della discussione una questione cruciale: come confrontarsi oggi con il pensiero di Carla Lonzi, pensatrice radicale e figura chiave del femminismo italiano degli anni Settanta, la prima a mettere in crisi l’idea di uguaglianza tra i sessi in favore dell’affermazione della differenza, nonché l’iniziatrice della pratica dell’“autocoscienza”. Partire da sé stessi come base di ogni relazione, riconoscimento e autenticità è tra le urgenze e i termini lonziani su cui la mostra Io dico io ha posto l’attenzione per indagare un’idea di soggettività capace di scardinare l’ordine simbolico determinato da uno sguardo dominante e presentarsi al mondo nella sua differenza, sgretolando il canone e l’egemonia delle sue narrazioni. In questa prospettiva, la riflessione sul rapporto tra arte e femminismo non rimane confinata all’indagine storiografica ma diventa possibilità di riflessione sul presente, sia nella dimensione dello studio e della ricerca, sia nella considerazione dell’arte delle donne operanti oggi in Italia.
“Recognition Across Time: “Herstories” in Exhibitions (1970s/2020s)” di Maria Bremer
Dal 1976 al 1978, una cooperativa di sole donne promosse dieci mostre per presentare le opere di diverse artiste in una galleria autogestita, con sede in una via intitolata al Beato Angelico, nel centro di Roma. Focalizzandosi esclusivamente sulla “presentazione, ricerca, raccolta e documentazione del lavoro delle donne, sia del passato che del presente, nel campo dell’arte visiva”, la cooperativa intendeva offrire una prospettiva storico-artistica di genere. Dopo la mostra inaugurale, in cui era stato presentato il dipinto Aurora dell’artista barocca Artemisia Gentileschi, le organizzatrici esposero le opere delle socie Suzanne Santoro e Carla Accardi, per poi passare a mostre retrospettive al fine di mettere in luce le donne artiste del passato, tra cui la futurista Regina Cassolo Bracchi e la pittrice del XVII secolo Elisabetta Sirani. Piuttosto che aderire alla tradizionale periodizzazione storica, questa programmazione ruotava intorno al riconoscimento delle donne artiste da parte di altre donne artiste attraverso le varie epoche, sfidando sia il predominio maschile nella storia dell’arte che la premessa di fondo della storicizzazione lineare. A sostegno di una più ampia rivalutazione delle mostre tutte al femminile emerse negli anni Settanta quale contributo concettuale alla storiografia dell’arte, il presente intervento si concentrerà sulla Cooperativa Beato Angelico per analizzare la messa in scena espositiva delle “storie al femminile”. Per cominciare, si approfondiranno le retrospettive organizzate dalla cooperativa negli anni Settanta, per poi passare a esaminare come le ex socie della cooperativa Suzanne Santoro e Stephanie Oursler siano state a loro volta riconsiderate dall’artista Constanze Ruhm nella sua recente mostra Come una pupilla al variare della luce [Like A pupil in the changing of light], Vienna, 2023. Quali sono le potenzialità di emancipazione di una storia dell’arte basata su risonanze tra posizioni a lungo sottovalutate? E per contro, cosa viene tralasciato da questo focus così selettivo e non lineare sulle donne, da parte delle donne? Come possiamo iniziare a studiare il “revisionismo storico-artistico” come “modalità di creazione del significato espositivo”, per usare un’espressione di Terry Smith? (aise)