Bellunesi nel mondo/ Anita Conte. Da Lamon a Indianapolis: un viaggio tra radici e medicina globale – di Giulia Francescon

BELLUNO\ aise\ - “Dall’infanzia trascorsa tra le montagne di Lamon all’impegno come oncologa negli Stati Uniti, la protagonista di questa intervista ci racconta una storia che attraversa generazioni, terre e culture. Figlia di emigranti partiti negli anni Cinquanta alla ricerca di un futuro migliore, ha mantenuto un legame fortissimo con le sue origini bellunesi, che ha trasmesso anche ai figli. Oggi lavora come medico in una zona rurale dell’Indiana, dove ha portato professionalità, empatia e un pezzetto di Dolomiti nel cuore. Una conversazione che intreccia memoria, identità e il desiderio di restituire valore alle comunità, in Italia come in America”. Si chiama Anita Conte la protagonista dell’intervista raccolta da Giulia Francescon per “Bellunesi nel mondo”, mensile dell’omonima associazione, diretto da Dino Bridda.
D. Cosa spinse i tuoi genitori a lasciare la provincia di Belluno?
R. I miei genitori lasciarono Lamon per trasferirsi in Svizzera negli anni Cinquanta alla ricerca di un lavoro, in quanto nel loro paese natale non c’era possibilità di impiego. Mia mamma andò a Zurigo con le sue sorelle per lavorare in una fabbrica. Mio papà inizialmente partì alla volta della Francia per lavorare come boscaiolo e successivamente come muratore in Svizzera.
D. Raccontaci del tuo legame con il Bellunese.
R. Il mio legame con Lamon nasce durante l’infanzia. Lì sono vissuta da quando avevo un anno e mezzo ai cinque. I miei genitori lavoravano come stagionali in Svizzera dalla primavera all’autunno e io stavo con mia zia a Lamon. Quando tornavano in inverno rimanevo nella nostra casa, sempre a Lamon. Mi sono trasferita a Zurigo a cinque anni per iniziare l’asilo. Ma ritornavamo a Lamon ogni anno durante l’estate, e anche in autunno, in modo che mio papà potesse andare a caccia. E anche dopo essermi trasferita negli Stati Uniti da adulta, torno a Lamon ogni anno portando con me la mia famiglia. Durante il nostro soggiorno ci assicuriamo di visitare le bellissime città e i paesi della provincia di Belluno e io vado sempre a camminare nelle Dolomiti con le escursioni del mercoledì, organizzate da gruppi di persone di Lamon, Fonzaso, Feltre e Belluno. Il mio legame nasce grazie anche ai familiari che vivono a Lamon: ci vediamo ogni anno e rimaniamo sempre in contatto. Ho cercato di trasmettere questo legame ai miei figli, che ora sono adulti. Quando vanno a Lamon per vacanza amano sedersi nella piazza e osservare la gente, cosa che non possono fare negli Stati Uniti. E hanno scoperto la passione per gli occhiali realizzati da Luxottica: ogni anno cercano di tornare a casa con un nuovo modello. E sono molto orgogliosi che i prossimi Giochi Olimpici Invernali si terranno a Cortina. Mi hanno chiesto se sarà possibile andare di persona ad assistere alle gare: sarà difficile, ma non impossibile se si pianifica in anticipo.
D. Perchè hai scelto di studiare Medicina?
R. Perché era una sfida e volevo vedere se sarei stata capace di terminare gli studi presso la facoltà di Medicina di Zurigo. E anche perché è un campo vario con tante specializzazioni da scegliere. Ho scelto di specializzarmi in oncologia: c’è una continua innovazione e si ha la possibilità di instaurare una relazione stretta con i pazienti mentre affrontano le loro terapie.
D. Hai mai pensato di trasferirti nel Bellunese?
R. Ho in mente di passare più tempo a Lamon e in provincia di Belluno quando avrò meno lavoro e dopo la pensione.
D. Cosa ti hanno trasmesso i tuoi genitori del loro territorio?
R. Mi hanno raccontato molte storie di come era la vita a Lamon quando erano giovani. Erano nati entrambi nel 1918. Mi hanno raccontato della povertà dopo la Prima guerra mondiale, che dovevano mangiare la polenta tre volte al giorno visto che non c’era nient’altro, che mia mamma doveva andare a piedi verso la “bassa” con il “caret” e barattare i fagioli con la farina e in generale per andare a “chiedere la carità”, e che il parroco monsignor Slongo era severo con i bambini. Ma mi raccontavano anche che le persone erano solite riunirsi nella stalla la sera per cantare, ricamare e divertirsi e dei giovani impegnati ad “andare al filò’”. Ma anche che mio papà fu catturato dai tedeschi prima della Seconda guerra mondiale e messo su un treno diretto in Germania e saltò dal treno in corsa e scappò. E poi l’importanza del fagiolo di Lamon. Alcuni anni fa ho portato delle sementi con me a Indianopolis e le ho piantate nel mio giardino. E cosa più importante: mi hanno trasmesso la lingua. Infatti, parlavano esclusivamente dialetto di Lamon a casa. E quando lo parlo utilizzo termini vecchi non più in uso tra i più giovani. Mi dicono che parlo come i “veci de na olta”.
D. Come funziona il Sistema sanitario negli Stati Uniti? Pro e contro?
R. Le persone con più di 65 anni con una disabilità usufruiscono dell’assicurazione Medicare finanziata dal governo. Le persone con uno stipendio basso usufruiscono dell’assicurazione Medicaid, anche questa finanziata dal governo. Per la maggior parte di coloro che ha un impiego, l’assicurazione sanitaria è finanziata dal datore di lavoro, ma il dipendente deve pagare una percentuale del costo mensile. E ogni persona ha una franchigia elevata, a volte seimila dollari all’anno, che deve coprire di tasca propria, prima che l’assicurazione inizi a coprire i costi dei trattamenti (che non sono preventivi). Ma se si sta male e si perde il lavoro, si perde anche l’assicurazione: a volte non si riesce a trovare un’assicurazione sanitaria conveniente, perciò il rischio è di indebitarsi e andare in bancarotta.
D. Un sistema piuttosto crudele.
R. In generale il livello di cure mediche è molto buono. Ogni nuova tecnica o medicinale può essere utilizzato dai medici indipendentemente dal costo. Le liste di attesa sono brevi. Ma visto che molti ospedali sono privati, le decisioni sulle terapie a volte sono influenzate da quale sarà il profitto per l’ospedale e non da cosa sia giusto per il paziente o per il sistema sanitario. E c’è molto lavoro amministrativo, visto che ogni piano assicurativo pubblico o privato ha regole diverse su quali terapie sono approvate e quali no. Questo porta a passare parecchie ore al giorno davanti al computer, controllando ogni singolo particolare dell’assicurazione, togliendo quindi tempo alla cura del paziente. Alcuni medici si lamentano di ciò e hanno perfino lasciato il lavoro a causa del burn out.
D. Raccontaci della tua esperienza come medico.
R. Dopo la mia specializzazione e tirocinio a New York, un periodo molto intenso, ci siamo trasferiti a Indianapolis (Indiana) in modo che potessi ottenere la mia green card lavorando in una zona con carenza di medici. Ciò significa che all’inizio ho dovuto lavorare in una zona rurale e mal servita dal punto di vista medico. Il gruppo al quale mi sono aggiunta aveva precedentemente creato cliniche satellite in circa venticinque ospedali più piccoli in tutta l’Indiana e io dovevo raggiungerne sette settimanalmente o due volte al mese. Perciò guidavo molto, fino a due ore sia all’andata che al ritorno ogni giorno. In ogni clinica lavorava un’infermiera del luogo a tempo pieno, la quale mi chiamava per porre quesiti nei giorni in cui non ero presente. Questo sistema si chiama “outreach” e penso funzioni molto bene per le persone che vivono in piccole città, specialmente per gli anziani, i quali non posso guidare fino alla capitale Indianopolis.
D. Se un medico di Belluno volesse lavorare negli Stati Uniti, quali sarebbero i tuoi consigli?
R. Dopo aver studiato Medicina, bisogna superare un esame negli Stati Uniti per laureati stranieri, l’USMLE. Dopo di che, si può partecipare al “Match” annuale, dove gli studenti vengono abbinati a una posizione di specializzazione in un determinato campo in un programma ospedaliero statunitense. È più facile ottenere una posizione in certe specializzazioni, ad esempio Medicina Interna o Cure Primarie, poiché ci sono molte posizioni vacanti. Una volta completata la specializzazione, che dura tre anni, possono sostenere un esame di abilitazione e poi iniziare a lavorare o specializzarsi ulteriormente. Un’alternativa è venire come ricercatore di laboratorio in una università. E se quel medico volesse poi passare a un percorso clinico e vedere i pazienti, fino a poco tempo fa doveva ripetere un programma di specializzazione negli Stati Uniti, anche se aveva già completato una specializzazione in Italia. Ma ora alcuni Stati accettano la formazione estera per fare domanda di licenza medica negli Stati Uniti.
D. Il Sistema sanitario italiano nelle zone di montagna sta attraversando sempre più difficoltà. Nelle aree degli Stati Uniti simili a Belluno come si affrontano i problemi causati dal fattore geografico?
R. Posso raccontare dell’esperienza nel Midwest, dove vivo. Non è una zona montuosa, ma ha molte aree rurali e molti piccoli ospedali. È difficile per questi ospedali avere degli specialisti, perciò ora sfruttano molto la telemedicina, ad esempio, per consulenze su malattie infettive o neurologiche per i pazienti ricoverati. Gli ospedali sono quindi in contatto con un gruppo di medici che lavora da remoto e che può parlare col paziente e l’infermiere usando il computer. E invece di medici permanenti che vivono nelle piccole città, devono essere aiutati sempre da più medici temporanei o che si spostano. È emersa un’intera industria di intermediari che inviano questi medici sostituti negli ospedali. E questo è diventato anche un business, purtroppo. E, rispetto al passato, si sfrutta di più la figura dell’infermiere professionista. Soprattutto in ambito ambulatoriale: ad esempio, in oncologia vi sono un medico e due infermieri professionisti che visitano il paziente in modo alternato e il medico supervisiona il lavoro. Negli ospedali ci sono
anche infermieri anestesisti che gestiscono la parte di anestesia. E i chirurghi spesso hanno medici assistenti per la parte di cura clinica.
D. Ultima domanda: raccontaci un ricordo di Lamon.
R. Mi ricordo che andavo all’asilo dalle suore. Eravamo una classe grande, tutti nati nel 1961. Indossavamo grembiuli rosa e blu. I nostri insegnanti erano un po’ severi e dovevamo sempre finire il piatto a pranzo anche se non ci piaceva. Mi ricordo che ogni estate camminavo fino alla casera in montagna, sopra Lamon, con mia zia, mio zio e il nonno. Facevamo il fieno, e aiutavo anche io. E nel pomeriggio, quando faceva caldo, gli adulti bevevano il caffè con il vino, che era molto dissetante. E alla sera andavamo a dormire nel fienile. In generale, mi ricordo il cibo della mia infanzia, come “sarenta” (latte con polenta), riso al lat, papete, zucca al latte”. (aise)