ItaloAmericano.org/ Il viaggio creativo di Martina Rosazza: character and story developer alla Disney – di Silvia Nittoli

Photo courtesy of Martina Rosazza

SAN FRANCISCO\ aise\ - “Martina Rosazza è piemontese, ma la sua infanzia è stata un viaggio tra culture: nata e cresciuta in Africa per il lavoro dei genitori, ha respirato arte e libertà fin da piccola. Bravissima a scuola ma annoiata dai numeri, ha scoperto presto che la vera energia veniva dai colori, dai disegni e dalle storie. Oggi, a cinque anni dal suo arrivo in California, continua a trasformare quella passione in realtà alla Disney Studios a Los Angeles, dove dà vita a personaggi, costumi e racconti che mescolano magia, poesia e profondità emotiva. “La Disney è la mia anima gemella lavorativa”, confessa Martina”. Ad intervistarla è stata Silvia Nittoli per l’ItaloAmericano.org diretto a San Francisco da Simone Schiavinato.
“Il suo percorso l’ha portata oltre il semplice disegno: oggi Martina è anche creative developer, un ruolo in cui accompagna i team nella costruzione delle storie, nello sviluppo dei personaggi e nella definizione dei loro archi narrativi. Dalle idee iniziali fino alla fase di produzione, si assicura che ogni dettaglio visivo sostenga il cuore della storia. In questo modo, la sua passione per l’illustrazione e per l’arte della narrazione, nata tra libri e schizzi da bambina, trova finalmente spazio in mondi animati.
D. Martina, com’è stato il tuo percorso di studi e di carriera?
R. Il mio percorso non è stato lineare. A scuola ero molto brava, e per tutti, insegnanti in primis, era scontato che scegliessi il liceo scientifico. Le mie sorelle invece avevano seguito l’indole artistica della nostra famiglia, entrambe al liceo artistico. Io avrei voluto farlo, ma mi sono lasciata influenzare dal giudizio degli altri: sembrava quasi un peccato scegliere quella strada. Così ho fatto lo scientifico. Andavo bene, ma dentro di me sapevo che non era la mia strada.
D. Quando hai capito che l’arte era davvero ciò che volevi?
R. Già all’università. Mi ero iscritta a Lingua e Letteratura, una via di mezzo tra il desiderio artistico e una formazione più “seria”. Intanto aiutavo mia sorella, che lavorava come illustratrice, e lì ho capito che non potevo scappare: mi piacevano i libri illustrati. Ho tentato diverse scuole, anche a Los Angeles, ma alla fine ho vinto una borsa di studio per una scuola di animazione a Tokyo.
D. Com’è stata l’esperienza in Giappone?
R. Bellissima e durissima. La borsa copriva la scuola, ma per mantenermi ho insegnato inglese per quattro anni. Ho imparato che non posso fare un lavoro che non mi interessa, il compromesso sarebbe troppo grande. Alla fine ho fatto uno stage alla Disney di Tokyo come character artist. Un sogno.
D. Perché hai lasciato Tokyo?
R. Per motivi di visto: non avevo abbastanza credenziali per un permesso artistico. Mi hanno offerto la stessa posizione a Monaco di Baviera e ho accettato. Disegnavo sempre personaggi Disney, usati poi per poster, pubblicità, prodotti. Ma lì ho capito che mi mancava lo storytelling. Volevo lavorare sull’arte legata alle storie, non solo al marketing.
D. Ed è per questo che sei arrivata a Los Angeles?
R. Esatto. Ho lavorato prima alla Disney Publishing, poi a Skydance Animation per Ray Gunn, un film di Brad Bird. Dopo sono passata a Disney TV, sempre in produzione artistica.
D. E cosa ti ha fatto cambiare direzione?
R. Ho capito che non mi basta fare arte in sé. Io mi sono innamorata dei film Disney da bambina, ma non erano solo i disegni: era la storia a emozionarmi. Se lo script non mi coinvolge, io mi spengo. Alcuni miei colleghi vivono per disegnare: quello è il loro talento. Io invece ho bisogno che ci sia significato, che ci sia un messaggio. Per questo ho iniziato a scrivere note sulle sceneggiature e in studio mi hanno detto: “Forse il tuo posto è nel creative development”.
D. E ora sei lì?
R. Sì. Lavoro nello sviluppo creativo: valutiamo la presentazione iniziale, analizziamo la sceneggiatura, cerchiamo di capire come funzionano le storie. Faccio ancora artwork, ma la parte centrale è la narrazione. E finalmente mi sento nel posto giusto.
D. Come funziona il processo di sviluppo dei progetti in Disney?
R. Le persone che hanno un’idea devono preparare un pitch deck: dentro ci sono la storia, una parte di script, dell’arte, insomma l’intero concetto del progetto. Io aiuto i team in questa fase: leggo le storie, propongo modifiche, faccio notare se l’arco di un personaggio può essere rafforzato, se manca un emotional payoff o se qualcosa ricorda troppo un film già esistente. Poi prepariamo l’arte e ripresentiamo il pitch. Finché non viene scelto nulla è annunciato, perché tutto resta in fase di valutazione.
D. In pratica, come funziona il lavoro sul costume design?
R. Si parte sempre dallo script: bisogna capire se la storia è ambientata in un’epoca reale o in un mondo inventato. Se, per esempio, si tratta degli anni ’20, non hai molta libertà: devi fare ricerca storica su tessuti, tagli, accessori. Dopo la ricerca ti vengono assegnati i personaggi: se uno è un soldato, una segretaria o un principe, crei costumi che abbiano senso per il ruolo e proponi una serie di alternative, anche dieci o quindici.
D. E poi come si procede?
R. Mostri le proposte al regista. Lui sceglie quello che gli piace e spesso ti chiede varianti: cambi di colore, pattern, accessori. Quindi rifai lo stesso costume in dieci colori diversi, oppure proponi pettinature e gioielli differenti. Una volta approvato il design, passa al team 3D, che lo modella digitalmente. A quel punto io controllo che corrisponda all’idea originale: si fanno aggiustamenti finché il personaggio in 3D non funziona.
D. Di tutto questo lavoro, qual è la parte che ti piace di più?
R. Il visual development. È bellissimo perché, in pratica, significa trovare soluzioni artistiche a ciò che nello script è solo scritto a parole. Se nel copione leggi “la scimmia diventa trasparente”, sullo schermo non puoi mostrare il nulla: devi inventare un modo perché il pubblico capisca cosa sta accadendo. Quindi: diventa gialla e luminosa? Ha un bagliore magico? Si dissolve a tratti? Il nostro compito è tradurre in immagini queste idee, perché gli sceneggiatori pensano alla storia, ma sta a noi renderla visibile.
D. Hai degli artisti di riferimento che ti hanno ispirata?
R. Ne ho tantissimi, ma cerco di non imitarli mai. Ho capito che se provi a riprodurre lo stile di qualcun altro non funziona: l’unico modo per avere successo come artista è rimanere fedele a te stesso, alla tua North Star interna. Per esempio, quando è uscito Spider-Verse, per noi artisti è stato un colpo: era stilizzato, innovativo, ci ha fatto impazzire. Ho provato anch’io a fare qualcosa in quello stile, ma non veniva mai bene, perché non era mio. Io amo le fiabe, i castelli, le torri magiche, le pozioni, le streghe: il mio cuore è Disney. Non sono una da supereroi Marvel, non è nelle mie corde. Quindi ho imparato a dire: Spider-Verse è fantastico, ma non devo farlo io.
D. E se dovessi citare un artista che ammiri particolarmente?
R. Glen Keane, senza dubbio. È uno dei più grandi animatori Disney. Se vedi i suoi disegni, li riconosci subito: ha fatto Tarzan, Ariel, e tanto altro. Il suo stile è disegno puro, animazione espressiva.
D. Guardando indietro, come leggi il tuo percorso?
R. Penso che non siano stati “cambi di idea”, ma evoluzioni. Ogni scelta, anche quelle che sembravano lontane dalla mia indole, mi ha insegnato qualcosa di essenziale. La società tende a giudicare chi cambia strada come insoddisfatto, ma non è così: spesso è l’unico modo per scoprire davvero chi sei e cosa vuoi fare”. (aise)