ItaloAmericano.org/ Italian Design Day: da Milano a Los Angeles, un’intervista a Marco Sabetta – di Silvia Nittoli


SAN FRANCISCO\ aise\ - “In che modo il design e l’architettura possono contribuire ad affrontare le disuguaglianze sociali? Le risposte sostenibili al cambiamento climatico possono promuovere comunità più inclusive? Queste sono state alcune delle domande chiave esplorate durante l’Italian Design Day in the World, tenutosi il 30 settembre presso l’American Institute of Architects (AIA) di Los Angeles. Istituito nel 2017 dal Ministero degli Affari Esteri italiano con il supporto del Ministero dei Beni Culturali, l’Italian Design Day è un programma coordinato a livello mondiale che ogni anno mobilita designer, curatori e istituzioni per presentare la cultura del design italiano attraverso conferenze, mostre e iniziative site-specific. L’evento di Los Angeles ha seguito questo format, aprendo all’AIA LA, come accennato, un dibattito pubblico sul design come motore di equità e sostenibilità”. Ne scrive Silvia Nittoli che a Los Angeles ha intervistato il Direttore generale del Salone del Mobile, Marco Sabetta, per l’ItaloAmericano.org, magazine diretto da Simone Schiavinato.
“Un’edizione che ha scelto di mettere in evidenza il Salone del Mobile.Milano, la principale fiera internazionale del design e vetrina globale per creatività, artigianato e innovazione. “Il Salone è un luogo dove l’industria incontra la società” ha sottolineato Marco Sabetta, direttore generale del Salone, spiegando come il Salone sia un motore di confronto su come il design possa plasmare un futuro più equo. “Creiamo una piattaforma in cui imprese, scuole, istituzioni e comunità creative si confrontano, e dove prospettive diverse vengono curate in una visione condivisa che orienta il settore. Il dialogo inizia a Milano ma prosegue tutto l’anno, in tutto il mondo, generando crescita culturale e opportunità concrete”.
Fondato nel 1961 per promuovere le esportazioni italiane di mobili, il Salone del Mobile è diventato nel tempo un punto di riferimento per l’industria del design globale e il fulcro della Milano Design Week, con un programma cittadino che si estende ben oltre il quartiere fieristico. Il suo ecosistema include il SaloneSatellite, lanciato nel 1998 da Marva Griffin per dare risalto ai talenti under 35, collegando scuole, giovani studi e aziende in un percorso che va dal prototipo alla produzione.
Marco Sabetta porta con sé un profilo esperto di mercato per la piattaforma del Salone: nato a Milano nel 1958, si è laureato in Economia e Commercio presso l’Università Bocconi e ha iniziato la sua carriera nel Gruppo Fininvest, ricoprendo in seguito incarichi dirigenziali presso Publitalia, E.Biscom e Publikompass, prima di dedicarsi al settore sportivo come direttore commerciale di F.C. Internazionale (2004-2007). Nel 2008 è diventato direttore generale del Salone, un ruolo che lo ha portato a coordinare le edizioni internazionali e a sviluppare una strategia più ampia che collega i risultati commerciali alla programmazione culturale.
Con l’Italian Design Day che posiziona il design come bene pubblico e il Salone che offre un forum concreto in cui l’industria incontra la società, il dialogo di Los Angeles ha posto le basi per un più ampio scambio tra Milano e Los Angeles su come la pratica del design possa promuovere l’inclusione rispondendo al contempo alle realtà climatiche.
D. Il design come strumento di equità è un tema forte e forse inaspettato per molti. Lei che da anni guida la più importante fiera del settore, come definirebbe oggi la “responsabilità sociale” del design?
R. La responsabilità sociale del design oggi è un’attitudine: pensare alle persone prima degli oggetti. È progettare con cura, far durare le cose, rispettare chi le produce e chi le usa. Significa anche saper dire dei “no” quando le scelte non sono coerenti con i valori prescelti. Come Salone, premiamo chi unisce bellezza e qualità con comportamenti esemplari. Per questo chiediamo ai nostri espositori di attenersi a Linee guida verdi, che orientano progettazione e allestimenti: allestimenti riutilizzabili e modulari; materiali certificati, riciclati o riciclabili; gestione responsabile del fine vita; riduzione di imballaggi e plastiche monouso; energia e servizi a basso impatto; logistica più efficiente; catering attento agli sprechi; tracciabilità dei fornitori e adesione a codici etici. Per noi, il modo in cui si lavora racconta tanto quanto il risultato finale.
D. Milano e Los Angeles sono due capitali creative molto diverse, ma entrambe vivono di contaminazioni tra design, arte e tecnologia. Cosa ha trovato più stimolante nel confronto con la scena californiana e che cosa, secondo lei, il design italiano può ancora insegnare o imparare da realtà come questa?
R. Dal confronto con Los Angeles porto a casa l’energia ibrida tra cultura, tecnologia e intrattenimento. Dall’Italia mettiamo sul tavolo la profondità artigianale e la cultura del dettaglio. Lo scambio migliore nasce qui: prototipare velocemente senza perdere l’anima, e raccontare l’innovazione con calore umano. In California ho visto un grande coraggio nel testare formati e linguaggi; noi portiamo una memoria progettuale che aiuta a dare radici alle novità. È un incontro che arricchisce entrambi i mondi.
D. Il Salone del Mobile è sempre più una piattaforma culturale oltre che commerciale. In che modo riuscite a mantenere questo equilibrio tra business e cultura, tra mercato e riflessione sul futuro del vivere?
R. L’equilibrio sta nel curare contenuti che aprano visioni e allo stesso tempo aiutino le aziende a incontrare le persone giuste. Ogni progetto speciale crea un ponte: l’emozione che porta dentro gli stand, idee che diventano relazioni e lavoro. Manteniamo la rotta con una regia coerente, che mette al centro il visitatore e rende ogni scelta leggibile. Così il Salone resta utile al mercato e generoso verso la comunità. Per questo portiamo parte del palinsesto in città, con installazioni pensate per restare aperte oltre i giorni di fiera, proprio per la comunità milanese e per chi arriva dopo l’onda dell’evento. Ci ispiriamo a linguaggi scenici come quelli di Es Devlin, spazi immersivi che combinano luce, parola e suono, e di Robert Wilson, dove la luce diventa drammaturgia e il tempo dell’esperienza rallenta. Non semplici quinte, ma dispositivi narrativi che dialogano con la città, prolungano il valore culturale del Salone e generano una ricaduta concreta sul tessuto urbano.
D. Il SaloneSatellite da oltre vent’anni è una vetrina per i designer under 35. Come è cambiato nel tempo il modo in cui le nuove generazioni interpretano il design e che cosa imparano dal dialogo con le aziende più affermate?
R. All’inizio arrivavano con l’oggetto-icona: una sedia, una lampada, un pezzo poetico. Oggi portano prototipi funzionanti, spesso pensati come famiglie di prodotto o servizi: arredi smontabili, materiali ibridi, componenti stampati in 3D, progetti riparabili. Sono più attenti a come si produce, ai costi, e sanno raccontare perché il loro progetto serve a qualcuno, non solo perché è bello. Dal dialogo con le aziende apprendono tre cose concrete: la fattibilità del loro progetto (cosa può entrare in catalogo e cosa no); il tempo industriale (un prototipo richiede sviluppo, test, assistenza) e il valore delle relazioni (perché dal primo incontro possono nascere tirocini, contratti di licenza, co-sviluppi). Ogni anno vediamo ragazzi che, dopo il SaloneSatellite, entrano in azienda o firmano il loro primo prodotto a catalogo. E una cosa non è cambiata: il Satellite è anzitutto un incontro umano. Marva Griffin, che lo ha fondato, ascolta e sprona tutti i giovani talenti. Quando poi vediamo un loro prodotto nelle vetrine, sappiamo che il loro primo prototipo sul nostro pavimento è stato il passaggio giusto.
D. Quanto conta oggi la dimensione internazionale e su quali nuovi mercati state investendo maggiormente?
R. Siamo una comunità internazionale: Milano resta il baricentro, ma l’orizzonte di ascolto si allarga. Stati Uniti, Medio Oriente, India e Sud-Est asiatico sono geografie con cui stiamo costruendo ponti stabili. Non si tratta solo di espandersi, ma di saper ascoltare le culture con cui dialoghiamo. In Medio Oriente debutteremo con “Red in Progress. Salone del Mobile.Milano meets Riyadh”, un evento di tre giorni dal 26 al 28 novembre al King Abdullah Financial District (KAFD), realizzato con l’Architecture and Design Commission del Ministero della Cultura saudita. Riunirà oltre 35 marchi italiani e fungerà da punto d’incontro con l’ecosistema locale. È un format pensato per attivare relazioni concrete tra aziende, architetti, developer e istituzioni.
D. Milano e il Salone del Mobile sono ormai due realtà inseparabili. Come vede l’evoluzione del loro rapporto nei prossimi anni, soprattutto in un’epoca in cui il digitale, la sostenibilità e il concetto stesso di abitare stanno cambiando così rapidamente?
R. Nei prossimi anni vedo un ecosistema più poroso fra padiglioni, spazi urbani e strumenti digitali; un’esperienza più fluida, accogliente e rispettosa dei tempi di chi la vive. La città continuerà a essere il contesto che educa, e il Salone la piattaforma che connette. Insieme possono guidare il settore verso un’idea di abitare più consapevole, bella e condivisa. Questo è l’impegno che rinnoviamo ogni anno”. (aise)