Swissinfo/ “Le donne, protagoniste invisibili di Mattmark” – di Luca Beti


BERNA\ aise\ - “Il 30 agosto 1965, dal ghiacciaio dell’Allalin, nelle Alpi vallesane, si staccarono due milioni di metri cubi di ghiaccio e detriti che travolsero il villaggio di baracche sottostante, uccidendo 88 operai, 56 dei quali erano italiani. Nel libro Mattmark 1965 – Erinnerungen, Gerichtsurteile, italienisch-schweizerische Verflechtungen (Mattmark 1965 – ricordi, sentenze e intrecci italo-svizzeri, nda), la storica svizzera Elisabeth Joris ricorda la tragedia, dando soprattutto voce alle donne coinvolte direttamente e indirettamente nella costruzione della diga”. Ad intervistarla è stato Luca Beti per Swissinfo.ch.
““Il sistema dei lavoratori stagionali era possibile solo perché le madri, le mogli e le figlie garantivano la continuità della vita familiare ed economica a casa”, evidenzia Joris. La pubblicazione raccoglie saggi di altri autori che presentano ulteriori elementi e chiavi di lettura della sciagura, tra questi, un contributo sui processi di primo e secondo grado, che si sono conclusi con l’assoluzione dei 17 imputati, e un articolo dedicato a una pièce teatrale presentata da una classe nella città di Treviso, in cui vengono ripercorsi i giorni del processo d’appello a Sion.
D. Signora Joris, dopo una tragedia come quella di Mattmark, nella memoria collettiva le donne compaiono spesso soltanto come vedove o madri in lutto. Nel suo libro, invece, mette in evidenza i molti loro ruoli durante la costruzione della diga. Quali erano?
R. C’erano donne assunte dalla direzione del cantiere: lavoravano negli uffici dell’amministrazione, nell’infermeria con 27 posti letto, nelle cucine e nella mensa. Si occupavano, insomma, di quelli che oggi chiamiamo “servizi di cura”. Alcune erano donne della valle, altre provenivano dalla Svizzera interna, soprattutto le infermiere. Buona parte erano parenti o mogli degli stessi operai e minatori italiani.
Le casalinghe dei villaggi vicini di Saas-Almagel e Saas-Grund erano invece coinvolte in modo indiretto nella costruzione della diga: offrivano vitto e alloggio agli operai, si occupavano del bucato oppure aprivano pensioni e ristoranti. Infine, va ricordato un aspetto meno visibile e spesso dimenticato: i lavoratori stagionali italiani rientravano periodicamente a casa, dove le mogli e le madri si occupavano dei figli, dell’azienda agricola o dell’azienda familiare. Il sistema degli stagionali funzionava infatti solo perché le donne portavano avanti le attività domestiche ed economiche durante l’assenza degli uomini.
D. Un caso esemplare è quello di Mario Fabbiane, morto a Mattmark, e di sua moglie incinta Magda Da Rold. Lui era impiegato come meccanico sul cantiere, mentre lei gestiva il Bar Centrale di Sedico, l’attività di famiglia. Della loro relazione è rimasto un carteggio di una cinquantina di lettere, che però lei non ha potuto studiare né includere nella pubblicazione. Quanto è emblematico questo caso rispetto alle difficoltà di reperire fonti sulla storia della migrazione e delle donne?
R. Nei grandi progetti l’attenzione si concentra quasi solo sul risultato finale e su chi vi ha lavorato direttamente, ad esempio i tecnici, i progettisti, gli operai, ignorando la rete di persone che è necessaria per renderlo possibile. Nei cantieri, come in altri contesti, le implicazioni umane della migrazione rimangono invisibili: la vita familiare, le relazioni, le conseguenze delle lunghe separazioni.
Il problema è che sappiamo pochissimo su cosa significhi davvero la migrazione per le persone coinvolte. Mancano nomi, storie, voci: gli archivi aziendali, in quanto privati, non sono accessibili e la documentazione sui lavoratori stagionali è scarsa. Senza lettere, documenti personali o testimonianze dirette, è quasi impossibile ricostruire la dinamica interna di famiglie costrette a vivere separate da un sistema, come quello degli stagionali, che imponeva la lontananza.
D. La catastrofe avvenne in un periodo di crescente xenofobia in Svizzera, soprattutto nei confronti degli operai italiani. Come influenzava questo clima la vita quotidiana attorno al cantiere?
R. Credo che l’abbia influenzata poco. Erano gli anni del secondo accordo italo-svizzero del 1964. Dalla fine dell’Ottocento, le dighe, le gallerie e i ponti sono stati realizzati in gran parte da manodopera italiana. Eppure, la Svizzera voleva paradossalmente ridurre la presenza di quegli operai che avevano costruito opere centrali per l’identità del Paese. Lo straniero veniva visto come una minaccia, un’immagine alimentata dagli ambienti della destra conservatrice. I grandi cantieri come Mattmark o la Grande Dixence si trovavano in zone remote e la presenza degli italiani era ritenuta “accettabile” perché temporanea. Si sapeva che sarebbero rimasti solo fino alla conclusione dei lavori. Erano due logiche, apparentemente in conflitto: da una parte la necessità di braccia per la realizzazione delle grandi opere, dall’altra la volontà di limitarne la presenza, perché percepita come pericolosa.
D. Tuttavia, la presenza del cantiere, con i suoi quasi 1400 operai comportava anche vantaggi per la popolazione locale…
R. Sì, in diversi ambiti. Grazie al cantiere, la valle di Saas beneficiò di servizi fino ad allora inesistenti, ad esempio di un’infermeria che curava anche gli abitanti della regione, di un cinema con proiezioni in italiano e tedesco oppure di un campo da calcio. Inoltre, molte donne cucinavano per gli operai o facevano il bucato. Col tempo si formò una vera e propria comunità italiana. D’estate le mogli con i figli raggiungevano i mariti per trascorrere insieme i lunghi mesi di vacanze a Saas-Grund e Saas-Almagell. Gli operai, che continuavano a lavorare al cantiere, prendevano in affitto per quel periodo camere o appartamenti. Sono tutti elementi che, pur senza creare una vera integrazione, migliorarono il benessere della popolazione locale e lasciarono un ricordo positivo. È la tipica ambivalenza della migrazione in Svizzera: utili da vicino, sgraditi da lontano.
D. La catastrofe portò anche a un cambiamento nell’atteggiamento dei sindacati nei confronti della manodopera straniera. Che importanza attribuisce a questo aspetto?
R. La tragedia di Mattmark segnò un punto di svolta nel modo in cui i sindacati svizzeri guardavano alla manodopera straniera. Fino ad allora, l’atteggiamento era spesso improntato alla diffidenza e i migranti erano spesso considerati come manodopera di serie B. Dopo la catastrofe, sotto la guida di Pietro Canonica, il Sindacato edilizia e legno decise di farsi portavoce anche degli interessi dei migranti, trattandoli alla pari degli svizzeri. Da quel momento, il sindacato assunse personale sindacale di origine italiana e diede un volto politico all’integrazione dei migranti nella società e nel movimento operaio elvetico. Va però ricordato che molti ambienti sindacali, in particolare l’Unione sindacale svizzera, restavano legati al linguaggio dell’“inforestierimento”. Eravamo in piena Guerra fredda: il Partito socialista era entrato in Consiglio federale nel 1959 con la formula magica e, dagli anni Trenta, i sindacati avevano fatto propria la pace del lavoro, basata sulla negoziazione e non sul conflitto aperto. Questo modello si scontrava con la tradizione di lotta presente nel sindacalismo italiano, un modello percepito in Svizzera come “non conforme”, “non svizzero”. Proprio in questo contesto, però, Canonica e il Sindacato edilizia e legno compirono un passo decisivo, frutto diretto della tragedia di Mattmark. Per Canonica, quella catastrofe fu un vero e proprio campanello d’allarme.
D. Molte delle vittime di Mattmark provenivano dalla provincia di Belluno. Nel suo libro mostra come l’Associazione Bellunesi nel Mondo abbia mantenuto viva la memoria fino a oggi, mentre nel resto della Svizzera, la tragedia è stata pressoché dimenticata. Come spiega questo impegno nella cultura della memoria?
R. L’associazione nasce nel gennaio 1966 proprio come reazione alla tragedia di Mattmark. Ma le radici sono più profonde e affondano nella catastrofe del Vajont, avvenuta due anni prima, quando le acque della diga travolsero la città di Longarone causando quasi 2’000 morti. La popolazione di Belluno, una provincia poverissima, era costretta a emigrare, temporaneamente verso la Svizzera, oppure definitivamente verso il Brasile. L’associazione nasce dalla necessità di documentare e dare voce a questa esperienza collettiva fatta di sacrifici, separazioni, insicurezza sul lavoro e lutti. La consapevolezza che nemmeno lo Stato italiano garantiva protezione e giustizia, come dimostrò la tragedia del Vajont, rafforzò l’idea che occorreva mantenere viva la memoria. Conservare il ricordo significava, allora come oggi, mantenere il legame tra chi era partito e chi era rimasto, consolidando il senso di appartenenza di una comunità dispersa nel mondo”. (aise)