I passi della ricerca

ROMA – focus\aise - È possibile che il nostro senso di identità sia più flessibile di quanto immaginiamo? Un recente studio - The self can be associated with novel faces of in-group and out-group members: A cross-cultural study - condotto da un gruppo di ricerca italo-giapponese coordinato da Mario Dalmaso, professore del dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell’Università di Padova, ha esplorato questa domanda, indagando se siamo in grado di riconoscere una parte di noi stessi nei volti di persone sconosciute appartenenti a culture diverse.
Nel corso dello studio, a partecipanti giapponesi e italiani è stato inizialmente chiesto di associare la propria identità a un volto bianco o asiatico. In altre parole, ogni partecipante doveva identificare sé stesso con uno dei due volti presentati, stabilendo così un legame arbitrario e momentaneo tra la propria identità e il volto scelto. Successivamente, le persone partecipanti hanno completato un compito di corrispondenza al computer, in cui dovevano indicare se il volto presentato corrispondeva a quello precedentemente associato con sé stessi o a quello associato con un’altra persona. Infine, hanno eseguito un test per misurare i pregiudizi inconsci nei confronti di individui asiatici e bianchi.
“I risultati hanno rivelato un aspetto sorprendente e affascinante del nostro senso di identità: sia gli italiani che i giapponesi hanno dimostrato una significativa capacità di identificarsi con volti di altri gruppi etnici”, spiega il Mario Dalmaso, primo autore dello studio. “Inoltre, questa capacità di vedere sé stessi negli altri non è stata influenzata dai pregiudizi verso l’altro gruppo sociale, suggerendo che la percezione di noi stessi è più adattabile di quanto pensiamo e può incorporare elementi sociali con caratteristiche diverse. Questo fenomeno offre uno sguardo profondo sulla psicologia umana, evidenziando come la flessibilità del sé possa essere una chiave per comprendere e accogliere l’altro”.
In un mondo sempre più multiculturale, la capacità di identificarsi in una persona sconosciuta, anche (e soprattutto) quando questa appartiene a un differente gruppo sociale, potrebbe dimostrarsi un’evidenza essenziale per promuovere società più inclusive e solidali.
“Questa ricerca apre nuove prospettive per future indagini su come questa flessibilità del sé possa aiutarci a superare le divisioni etniche e culturali, favorendo un dialogo più aperto tra comunità diverse. Forse scopriremo – o forse lo sappiamo già – che la nostra identità non è un’entità statica, ma un insieme dinamico, pronto a evolversi e arricchirsi attraverso l’interazione con ciò che è diverso da noi” conclude Dalmaso.
Alla ricerca hanno partecipato anche Michele Vicovaro, professore del Dipartimento di Psicologia Generale, e Akira Sarodo e Katsumi Watanabe, dell’Università Waseda di Tokyo.
Una ricerca internazionale svolta congiuntamente , per l’Italia, dall’Istituto Officina dei Materiali del Consiglio nazionale delle ricerche di Trieste (Cnr-Iom) e dalle Università di Trieste e Milano-Bicocca assieme all’Università di Vienna, ha dimostrato un metodo semplice e innovativo per realizzare una nuova categoria di materiali che uniscono le straordinarie proprietà manifestate da singoli atomi metallici con la robustezza, flessibilità e versatilità del grafene, per potenziali applicazioni nei campi della catalisi, della spintronica e dei dispositivi elettronici.
Lo studio è pubblicato sulla rivista Science Advances: il metodo consiste nel depositare in modo controllato atomi metallici, come il cobalto, durante la formazione dello strato di grafene su una superficie di nichel. Alcuni di questi atomi vengono incorporati nella rete di carbonio del grafene, così formando un nuovo materiale che ha proprietà eccezionali di robustezza, reattività e stabilità.
Il metodo è stato ideato nei laboratori del Cnr-Iom di Trieste: “Si tratta di un risultato ancora preliminare, ma già molto promettente, frutto di un’idea originale nata nel nostro laboratorio che all’inizio sembrava irrealizzabile”, afferma Cristina Africh, ricercatrice del Cnr-Iom che ha guidato il team.
Grazie al fatto che il materiale può essere staccato dal substrato mantenendo la sua struttura originale, esso è potenzialmente utilizzabile in ambito applicativo. “La metodologia è stata sperimentata per intrappolare atomi di nichel e cobalto, ma i nostri calcoli dicono che l’uso si potrà estendere ad altri metalli per applicazioni diverse”, spiega Cristiana Di Valentin, professoressa di Chimica generale e inorganica dell’Università di Milano-Bicocca.
Inoltre, il materiale ha mostrato stabilità anche in condizioni critiche: “Abbiamo dimostrato che questo materiale sopravvive anche a condizioni critiche, inclusi gli ambienti elettrochimici utilizzati per le applicazioni in celle a combustibile e batterie”, aggiunge Jani Kotakoski dell’Università di Vienna.
Frutto di una collaborazione internazionale, lo studio si è avvalso di competenze diverse e complementari: “Un aspetto decisivo per dimostrare l’efficacia di questo approccio, semplice e potente al tempo stesso”, conclude Giovanni Comelli dell’Università di Trieste.
Ricercatori dell’Istituto di analisi dei sistemi ed informatica ‘A. Ruberti’ del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Cnr-Iasi), in collaborazione con l’Università campus bio-medico di Roma, hanno sviluppato un nuovo approccio alla regolazione della glicemia nei pazienti con diabete di tipo 1, basato su strategie di ‘controllo ottimo impulsivo’, progettato specificamente per la gestione tramite iniezioni multiple giornaliere (MDI). Come è noto, il diabete di tipo 1 è una malattia cronica caratterizzata da livelli elevati e persistenti di glucosio nel sangue, causati da una assenza di produzione dell’ormone insulina, che pertanto deve essere somministrata esternamente e con frequenza regolare, aprendo la strada all’adozione di tecniche avanzate di controllo automatico. Il ‘controllo ottimo impulsivo’ è una tecnica innovativa di controllo che ha l’obiettivo di determinare la dose ottimale di insulina da iniettare in base a misure periodiche di glicemia, a una stima del livello di insulina nel sangue e alle abitudini alimentari del paziente.
Il metodo, pubblicato sulla rivista IEEE Transactions on Control Systems Technology, si caratterizza per la capacità di calcolare inizialmente offline una traiettoria glicemica ottimale in condizioni ideali. “Questo calcolo avviene attraverso un modello matematico continuo e non lineare, che rappresenta le variazioni della glicemia come un processo influenzato da una serie di fattori complessi e variabili”, spiega Alessandro Borri, ricercatore del Cnr-Iasi. “Una volta definita la traiettoria ideale, il metodo è in grado di seguirla in tempo reale con un impegno computazionale ridotto, grazie a un algoritmo di stima online che si aggiorna basandosi su misurazioni glicemiche effettuate sporadicamente”. Questo approccio consente al sistema di adattarsi e compensare eventuali condizioni non ideali che si presentano nella vita quotidiana, come l’assunzione di pasti a orari variabili, con composizioni e carichi calorici diversi e non prevedibili.
La metodologia di controllo è stata validata ‘in silico’, cioè mediante simulazione numerica al computer, su una popolazione virtuale di mille pazienti diabetici di tipo 1, generati secondo un noto modello approvato dalla Food and Drug Administration come sostituto della sperimentazione animale nei test preclinici di strategie di controllo della glicemia ad anello chiuso. “Tale campagna di validazione preclinica ha confermato l’efficacia di questo approccio, che promette di migliorare la gestione della glicemia nei pazienti e di ottimizzare l’uso della terapia insulinica, puntando a semplificare la vita quotidiana e a migliorare il benessere di chi convive con il diabete di tipo 1”, conclude il ricercatore. (focus/aise)