I passi della ricerca

ROMA – focus\aise - “Noi abbiamo un grande fantasma che ci perseguita da molti decenni: sull'Adriatico questo fantasma sono i Piceni”, così si esprimeva, nel 1975, Massimo Pallottino, lo studioso che ha contribuito più di ogni altro allo studio dell’Italia preromana. Oggi, grazie ad uno studio interdisciplinare che ha visto la collaborazione sinergica di archeologi e genetisti, quel "fantasma" torna a vivere, permettendoci di esplorare in profondità le origini, i contatti e l'evoluzione dei Piceni, una delle civiltà più affascinanti dell’Italia preromana.
Uno studio condotto dal Dipartimento di Biologia e biotecnologie Charles Darwin della Sapienza Università di Roma in collaborazione con l’Istituto di biologia e patologia molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma (Cnr-Ibpm) ha, infatti, analizzato il DNA antico di oltre 100 resti scheletrici provenienti da diverse necropoli dell’Italia Centrale, coprendo un arco temporale di più di 1000 anni, dall'età del ferro alla tarda antichità. I risultati, pubblicati sulla rivista Genome Biology, hanno rivelato una storia genetica sorprendente che differenzia i popoli dell'Adriatico da quelli del Tirreno e che fornisce nuovi spunti di riflessione sull’eredità genetica dell’Impero Romano, e sul suo ruolo nel plasmare i cambiamenti genetici e fenotipici in tutta la penisola italiana.
“Negli ultimi anni, lo studio del DNA antico sta divenendo uno strumento insostituibile per ricostruire la storia dell'umanità. Attraverso l'analisi del materiale genetico estratto da reperti umani, possiamo comprendere meglio le migrazioni, le interazioni e l'evoluzione delle popolazioni nel corso dei millenni. Questi dati offrono oggi una visione senza precedenti del nostro passato e delle dinamiche che hanno plasmato le società antiche” spiega Fulvio Cruciani, docente di Genetica delle Popolazioni presso Sapienza e coautore dell’articolo.
“L'analisi genomica delle necropoli Picene, di cui la principale è stata quella di Novilara, ha mostrato che, sebbene culturalmente distinto, questo popolo condivideva un patrimonio genetico comune con altre culture coeve ed in continuità con le precedenti culture italiche. Tuttavia, le popolazioni adriatiche presentavano caratteristiche peculiari, legate ai continui scambi commerciali e culturali attraverso l'Adriatico, riflettendo un mosaico complesso di interazioni che hanno plasmato il pool genetico piceno in modo diverso rispetto a quello delle popolazioni tirreniche”, aggiunge Eugenia D’Atanasio, ricercatrice Cnr-Ibpm e co-coordinatrice dello studio.
Uno degli aspetti più affascinanti emersi dalla ricerca è la diversità fenotipica dei Piceni rispetto ai loro vicini.
Lo studio ha evidenziato che questi mostravano una maggiore prevalenza di tratti fenotipici come occhi azzurri e capelli chiari, caratteristiche molto meno comuni tra le popolazioni coeve come gli Etruschi e i Latini. Questa diversità fisica, unita ai contatti genetici con popolazioni del Nord Europa e del Vicino Oriente, rende i Piceni un caso unico nello studio dell'Italia preromana.
“Questo studio multidisciplinare rappresenta un passo cruciale nella comprensione dell’evoluzione del pool genetico dell’Italia preromana, evidenziando sia la complessità dei movimenti di popolazione che gli scambi culturali che caratterizzavano le società antiche. I risultati aprono nuove prospettive sulla storia demografica dell’intera penisola suggerendo che una società cosmopolita iniziò a emergere e persistette in Italia durante l’età del ferro, raggiungendo il suo apice durante l'epoca imperiale romana”, spiega Beniamino Trombetta Professore di Genetica Umana della Sapienza e responsabile scientifico del progetto.
Le analisi sul DNA antico, sebbene ancora agli albori, stanno aprendo nuove e affascinanti prospettive, non solo nel campo dell'archeologia e dell'evoluzione umana, ma anche in quello medico, come dimostrato dal Premio Nobel per la Medicina del 2022, conferito a studi di questo tipo. Seguendo questa tendenza, la pubblicazione di questa ricerca segna una pietra miliare per l’archeogenetica italiana e pone le basi per ulteriori ricerche che potrebbero riscrivere la storia delle nostre origini.
Chi l’avrebbe mai detto? Anche nel mondo delle anguille, la diversità è resilienza. A rischio di estinzione a causa della pesca illegale e di altre molteplici minacce, questi pesci dalla caratteristica forma che ricorda un serpente, sembrano però avere un “asso nella pinna”: comportamenti migratori dissimili che li aiutano ad adattarsi colonizzando habitat distinti. Ed è proprio questa varietà di strategie che potrebbe fare la differenza per la loro conservazione.
Un recente studio condotto dall’Università di Ferrara, insieme all’Università di Padova e all’Istituto di biofisica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa (Cnr-Ibf), ha, infatti, scoperto che non tutte le anguille si comportano allo stesso modo durante la migrazione. Alcune sono esploratrici instancabili, pronte a risalire forti correnti, altre sono più “scalatrici”, esperte nel superare barriere come dighe e sbarramenti. Un bel vantaggio, visto che questo approccio individualizzato riduce la competizione per le risorse e aumenta le probabilità di sopravvivenza della specie.
La ricerca, che offre nuove prospettive per comprendere meglio le esigenze ecologiche delle anguille e contribuire alla loro tutela, è stata pubblicata sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas).
Dalla schiusa delle uova nel lontano Mar dei Sargassi, le larve di anguille europee, trasparenti e a forma di foglia di salice, vengono trasportate dalle correnti marine attraverso l’Oceano Atlantico e, dopo aver superato lo Stretto di Gibilterra, raggiungono ogni anno le nostre coste. Ma qui non finisce la loro straordinaria avventura: le larve si trasformano in piccole anguille, note come “ceche”, pronte a vivere in acque dolci e a diventare nuotatrici attive.
Una volta giunte alle foci dei fiumi, le ceche iniziano la risalita, spingendosi sempre più a monte fino a trovare l’habitat ideale per la crescita e la maturazione sessuale. Questo percorso fluviale è pieno di ostacoli: le giovani anguille devono superare barriere naturali e artificiali come dighe e sbarramenti, imparare a evitare predatori, cercare nuove fonti di cibo e infine individuare i luoghi più adatti alla loro crescita e sopravvivenza. E come riescono a farlo? Semplice: ciascuna con la propria strategia.
Secondo il team di ricerca, che ha condotto una serie di osservazioni su un gruppo di ceche campionate nel delta del Po, questa diversità di comportamento – o “personalità migratorie” – è un elemento cruciale per la sopravvivenza della specie.
“Contrariamente a quanto si pensa, una migrazione non è sempre un movimento coordinato di massa”, spiega Paolo Domenici, ricercatore del Cnr-Ibf. “In alcune specie, per esempio, ci sono individui che migrano prima, seguiti da altri, o individui che scelgono di non migrare ogni anno. È il caso del salmone, dove alcuni individui maturano nei fiumi e nelle loro foci, mentre altri si spostano fino al mare aperto. Nello studio sulle anguille, ci siamo concentrati proprio su queste differenze”.
Le anguille campionate nel fiume Po sono state collocate in vasche sperimentali che simulavano l’ambiente fluviale. In metà degli esperimenti il flusso d’acqua era continuo, mentre nell’altra metà era presente uno scivolo d’acqua, a imitare una barriera come uno sbarramento o una diga. I risultati hanno mostrato che alcuni individui erano molto abili nel risalire il flusso continuo, ma trovavano difficoltà con le barriere; al contrario, altri individui avevano successo sugli sbarramenti ma faticavano nel flusso d’acqua. Il gruppo di ricerca ha, dunque, concluso che le anguille adottano strategie migratorie diverse, che potenzialmente permettono ai diversi individui di raggiungere habitat distinti del fiume.
Gaia De Russi, dottoranda del Dipartimento di Scienze della vita e biotecnologie di Unife, spiega: “Distribuirsi in ambienti diversi non solo aiuta a ridurre la competizione per le risorse, ma offre anche una garanzia: se un habitat diventa inospitale, ci sono anguille in altri luoghi che possono sopravvivere e mantenere viva la specie.” “È interessante notare”, continua De Russi, “come le anguille, a seconda delle loro diverse modalità migratorie, mostrino differenze significative anche in altri aspetti, rivelando vere e proprie ‘personalità migratorie’. Per esempio, gli esemplari che eccellono nel superare barriere tendono a crescere più lentamente, a essere meno esplorativi, ma imparano più rapidamente a risolvere i problemi legati alla ricerca del cibo. Queste diverse strategie individuali fanno sì che ciascun tipo di anguilla finisca per colonizzare habitat differenti lungo il sistema fluviale. Quando le anguille raggiungono l’età adulta, le attende un’altra straordinaria migrazione, questa volta verso il Mar dei Sargassi, per la riproduzione. Anche questo viaggio, probabilmente, sarà affrontato in modi diversi da ogni individuo, anche se al momento non abbiamo dati su questo aspetto.”
“La popolazione mondiale di anguille è in declino”, aggiunge Giuseppe Castaldelli del Dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Prevenzione di Unife, che con il suo gruppo di ricerca in Ecologia monitora la risalita delle ceche nel fiume Po nell’ambito del Progetto Lifeel. “Lo vediamo dal numero sempre minore di ceche che riusciamo a campionare nelle foci e di piccole anguille in risalita nei nostri fiumi. Un tempo, alcuni di questi animali raggiungevano perfino i laghi morenici ai confini con la Svizzera. È stupefacente quanto poco ancora conosciamo di questa migrazione, la cui comprensione è sicuramente importante per designare al meglio le strategie e gli interventi per la conservazione e protezione delle anguille.”
Il professor Tyrone Lucon-Xiccato del Dipartimento di Scienze della vita e biotecnologie riassume: “Spesso pensiamo che per proteggere la biodiversità sia sufficiente salvaguardare le differenti specie. Il nostro studio dimostra che non basta: la biodiversità include anche le differenze comportamentali all'interno di una singola specie, come le diverse strategie migratorie che osserviamo nelle anguille. Sarà importante garantire non solo che le anguille continuino a risalire i nostri fiumi, ma che la popolazione mantenga questa diversità migratoria che consente loro di colonizzare molteplici habitat.”
Hanno contribuito allo studio Gaia De Russi, Mattia Lanzoni, Giuseppe Castaldelli, Cristiano Bertolucci, e Tyrone Lucon-Xiccato dell’Università di Ferrara, Angelo Bisazza dell'Università di Padova, e Paolo Domenici dell’Istituto di biofisica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Ibf). (focus/aise)