I passi della ricerca

ROMA – focus/ aise – L’idrogeno è considerato uno dei vettori energetici più promettenti per il futuro: è pulito, perché brucia producendo solo acqua, ed è altamente efficiente, generando quattro volte più energia del petrolio per unità di massa. Oltre al suo ruolo strategico nella transizione energetica, l’idrogeno è anche una materia prima cruciale per l’industria chimica e petrolchimica, dove viene utilizzato fino al 70% dei processi produttivi, ad esempio per la sintesi dell’acqua ossigenata, presente in milioni di tonnellate ogni anno nelle nostre case, nei servizi sanitari e nei supermercati.
Attualmente, però, l’idrogeno e l’acqua ossigenata vengono prodotti attraverso processi industriali ad alta intensità energetica, che fanno largo uso di combustibili fossili. Per questo, utilizzare la luce solare per ottenere queste molecole – ispirandosi alla fotosintesi naturale – è una sfida scientifica di grande rilevanza.
Questo approccio si basa sulla fotocatalisi, un processo in cui una sostanza assorbe la luce e sfrutta l’energia raccolta per innescare reazioni chimiche utili. In termini semplici, è un modo per trasformare la luce in energia chimica, ad esempio per ottenere idrogeno dall’acqua o acqua ossigenata dall’ossigeno dell’aria. Esistono già materiali fotocatalitici in grado di promuovere singolarmente uno di questi due processi, ma progettare un sistema capace di modulare il prodotto finale – passando selettivamente da idrogeno ad acqua ossigenata – semplicemente cambiando la condizioni, è una sfida ancora aperta.
Con questo obiettivo, un team di ricerca del Dipartimento di Scienze chimiche dell’Università di Padova ha progettato una molecola organica innovativa, capace di rispondere in modo “intelligente” alle condizioni ambientali, trasformandosi in nanostrutture differenti che attivano due processi fotocatalitici diversi: la produzione di idrogeno oppure di acqua ossigenata, semplicemente modificando il modo in cui le molecole si aggregano.
La ricerca, recentemente pubblicata sulla rivista “Advanced Functional Materials”, è stata condotta dalla dottoranda Marianna Barbieri e coordinata dal docente Luka Ðorđević. Lo studio mostra come una singola molecola a base di un colorante possa autoassemblarsi in due nanostrutture differenti, con comportamenti completamente differenti.
“Le nanostrutture fibrose generano idrogeno da acqua sotto luce solare, mentre le nanostrutture particellari attivano la produzione di acqua ossigenata a partire da aria e luce”, spiega Marianna Barbieri. “Per ottenere questo comportamento bifunzionale, abbiamo sfruttato i principi della chimica supramolecolare, che permette di controllare finemente come le molecole organiche, in questo caso un colorante, si organizzano nello spazio e comunicano tra loro. Questo controllo sull’autoassemblaggio si è rivelato cruciale per modulare l’attività fotocatalitica. Un altro aspetto cruciale è la sostenibilità: i materiali sviluppati sono completamente organici, non contengono metalli rari, sono riciclabili e riutilizzabili, contribuendo così a una chimica verde, più sicura e più economica. Questo lavoro conferma come la ricerca fondamentale, unita a una visione interdisciplinare, possa dare vita a tecnologie avanzate con un impatto reale sulla società e sull’ambiente”.
I modelli più tradizionali per la comprensione delle dinamiche tumorali, come le colture bidimensionali su piastra, spesso non riescono a rappresentare in modo accurato l’insorgere della malattia e la complessità del microambiente umano. Il rischio è che le terapie sviluppate da questi modelli, una volta applicate all’uomo, riproducano risultati inattesi e siano meno efficaci.
Uno studio internazionale, pubblicato sulla rivista “Biomaterials” e condotto dal Dipartimento di Scienze e Biotecnologie Medico-Chirurgiche dell’Università La Sapienza di Roma, ha sviluppato un nuovo strumento in grado di ricreare in laboratorio tumori vascolarizzati complessi, fondamentali per comprendere l’insorgenza e la progressione di tumori correlati al sistema vascolare, ai parametri biomeccanici e alle risposte del sistema immunitario.
Il dispositivo si chiama “small Vessel Environment Bioreactor” (sVEB) e riproduce in miniatura i vasi sanguigni e il loro microambiente tumorale, offrendo un modello molto più realistico rispetto ai tradizionali sistemi in vitro e agli “organi su chip”, rappresentando un’importante innovazione nel campo della medicina di precisione.
Utilizzando cellule derivate dai pazienti e integrando differenti tecnologie di bio-fabbricazione, come la stampa 3D, la millifluidica, la tecnologia dei materiali e il magnetismo, sVEB consente di studiare le caratteristiche specifiche di ciascun individuo, aprendo la strada a terapie personalizzate.
“Il bioreattore – spiega Roberto Rizzi, coordinatore dello studio e professore di Bioingegneria tissutale alla Sapienza – permette di osservare come un tumore interagisce con i vasi sanguigni e come risponde all’arrivo delle cellule immunitarie, il tutto in condizioni dinamiche e controllate, simili a quelle presenti nel corpo umano”.
Una delle innovazioni più affascinanti introdotte da sVEB è l’uso di cellule del sistema immunitario “guidate” da minuscole particelle magnetiche. Queste particelle, soggette ad un campo magnetico, permettono di dirigere in modo preciso le cellule immunitarie verso il tumore, così da colpirlo in modo più accurato ed efficace. Ciò potrebbe aiutare a trasformare tumori poco sensibili all’immunoterapia, chiamati “freddi”, in tumori “caldi”, più reattivi ai cambiamenti.
Il dispositivo è stato sviluppato per lo studio del tumore al seno, ma offre un’ampia gamma di applicazioni anche per diverse patologie specifiche degli organi. Grazie infatti alla sua struttura modulare e alla capacità di replicare sistemi fisiologici vascolarizzati complessi e i loro parametri biomeccanici, lo sVEB può essere adattato per modellare anche i vasi all’interno del cuore, del cervello e degli altri organi.
“Questa versatilità consente di analizzare le interazioni tra cellule specifiche e il loro microambiente in condizioni controllate, facilitando la comprensione dei meccanismi di progressione patologica – continua Francesca Megiorni, autrice dello studio e professoressa del Dipartimento di Medicina Sperimentale della Sapienza – La possibilità di integrare cellule derivate da pazienti specifici rende sVEB uno strumento promettente per la medicina personalizzata, permettendo di sviluppare trattamenti basati sulle caratteristiche individuali del paziente”.
Sebbene l’applicazione sia ancora in fase iniziale, il bioreattore sVEB ha dimostrato di essere un sistema stabile e riproducibile nel tempo, caratteristiche fondamentali per un utilizzo affidabile nella ricerca, e rappresenta un grande passo avanti verso la possibilità di simulare e studiare malattie complesse come il cancro in modo più realistico e sicuro. (focus\aise)