I passi della ricerca

ROMA – focus/ aise – Sarà l’Italia a ospitare la prossima riunione dell’Artic Circle Forum, la più grande rete di dialogo e cooperazione internazionale sull’Artico e più in generale sui “tre Poli”, che comprendono anche i ghiacciai, così importanti per le nostre Regioni alpine. L’evento, organizzato dal Ministero dell’Università e della Ricerca (MUR) in collaborazione con il Consiglio Nazionale delle Ricerche, si terrà il 3 e il 4 marzo 2026 nella sede centrale del CNR a Roma.
L’Arctic Circle Rome Forum - Polar Dialogue “From Glaciers to Seas” rientra tra le iniziative dell’Arctic Circle ed è supportata dal Memorandum of Understanding siglato lo scorso mese di maggio tra MUR e Arctic Circle, in occasione della visita in Italia del Chairman di Arctic Circle, Ólafur Ragnar Grímsson, già presidente dell'Islanda fra il 1996 e il 2016.
Nel corso della due giorni, il MUR valorizzerà l’esperienza e l’eccellenza italiana nei Poli quale attore internazionale di primo piano in un contesto di crescente rilevanza sul piano scientifico, climatico ma anche economico-commerciale e geopolitico. L’evento vedrà quindi il coinvolgimento anche del Ministero degli Esteri, del Ministero della Difesa e del Ministero dell’Ambiente, oltre a tutti gli enti di settore interessati.
A ospitare l’Artic Circle Rome Forum sarà il CNR, da tempo impegnato nel campo della ricerca polare, ulteriormente rafforzata dal recente avvio di una specifica struttura, il Polar Hub, che ha lo scopo di armonizzare il coordinamento scientifico e gestionale di tutte le attività legate alla ricerca sul tema.Artic Circle è una organizzazione internazionale aperta alla partecipazione di rappresentanti di governo, organizzazioni, aziende, comunità scientifica, università, think tank, associazioni ambientaliste, comunità indigene, società civile e altri stakeholder di potenziale interesse: una piattaforma democratica aperta in cui scambiare idee, opinioni e visioni.
L'evento, molto atteso dalla comunità internazionale, sarà incentrato sui temi “Science, Diplomacy, Security, Education, Research”, attorno ai quali si svilupperanno i panel di discussione.
Un approccio non invasivo di ultima generazione per diagnosticare precocemente la malattia di Alzheimer, migliorando la gestione della patologia e la qualità di vita dei pazienti. È quanto è stato brevettato dal Laboratorio di Biotecnologie RED dell’ENEA nell’ambito del Piano Nazionale della Ricerca 2021–2027. Il prossimo passo sarà quello di sviluppare un test non invasivo e a basso costo.
La ricerca ha identificato nelle feci nuovi biomarcatori capaci di fornire una diagnosi precoce e una prognosi più adeguata, utilizzando un approccio multidisciplinare della biologia molecolare e avvalendosi di un modello che riproduce le fasi della malattia osservate nell’uomo.
“È ormai ampiamente dimostrata l’esistenza di una stretta relazione tra la composizione del microbiota intestinale e lo sviluppo di patologie neurodegenerative, incluso l’Alzheimer. In particolare, stati di disbiosi intestinale sono stati associati ad un aumento del rischio di sviluppare la malattia”, spiega la referente del team ENEA Roberta Vitali, ricercatrice del Laboratorio di Biotecnologie RED. “Partendo dall’ipotesi che le alterazioni del microbiota possano tradursi in modificazioni molecolari rilevabili nel campione fecale – prosegue - abbiamo proposto le feci come matrice per lo screening di biomarcatori per l’Alzheimer. La nostra ipotesi è stata che specifici microRNA e proteine presenti nelle feci possano fungere da marcatori di malattia”.
Il panel delle molecole identificate è stato brevettato e una selezione dei microRNA e delle proteine identificate è stata validata su campioni fecali nei diversi stadi della patologia. I risultati hanno confermato che tali molecole sono modulate in specifiche fasi della patologia o in correlazione alla sua progressione, costituendo quindi promettenti biomarcatori per diagnosi e prognosi.
“L’analisi di questi biomarcatori fecali nella matrice ottenuta da pazienti porrà le basi per sviluppare metodi sostenibili diagnostici e ripetibili nel tempo, di offrire una diagnosi precoce più accessibile aumentando l’efficacia delle eventuali terapie, di ridurre i costi rispetto ai metodi invasivi come il prelievo di liquido cerebrospinale e contribuirà in modo significativo al controllo di questa patologia ad alto impatto socio-sanitario”, conclude Vitali.
L’Alzheimer è la forma più comune di demenza senile e rappresenta una crescente emergenza sanitaria globale. In Italia colpisce circa il 5% degli over 60 e, secondo il Rapporto Mondiale Alzheimer 2015, nel mondo si contano oltre 46,8 milioni di persone affette da una forma di demenza.
Un peso corporeo eccessivo, in particolare lo stato di sovrappeso o di obesità, è associato a un invecchiamento accelerato del cervello e a una maggiore atrofia cerebrale, soprattutto tra gli uomini.
È quanto emerge dal più ampio studio internazionale condotto finora sul rapporto tra peso corporeo e salute cerebrale. Pubblicato sulla rivista eBioMedicine, lo studio ha coinvolto oltre 46.000 persone in 15 progetti di ricerca.
I ricercatori – riporta l’Università di Bologna – hanno utilizzato avanzate tecniche di imaging cerebrale e algoritmi di apprendimento automatico per analizzare i casi di individui in sovrappeso o obesi, ma privi di diagnosi di deficit cognitivi. L’obiettivo era capire se l’eccesso di peso possa contribuire silenziosamente all’invecchiamento cerebrale o a una perdita di volume cerebrale simile a quella osservata nella malattia di Alzheimer.
“Dall’analisi approfondita di questo ampio campione di risonanze magnetiche cerebrali è emerso che c’è una connessione tra lo stato di obesità e l’invecchiamento del cervello: un fenomeno più marcato tra gli uomini che tra le donne, e con effetti che diminuiscono con l’avanzare dell’età”, spiega Filippos Anagnostakis, primo autore dello studio, affiliato ricercatore presso la University of Pennsylvania e la Columbia University, e neolaureato in Medicina dell’Università di Bologna.
Anagnostakis ha portato avanti la ricerca durante il suo percorso di studi all’Alma Mater, in collaborazione con studiosi di diversi atenei statunitensi, tra cui l’Università di Harvard e l’Università della California – San Francisco.
“I risultati che abbiamo ottenuto – aggiunge il ricercatore – sono un'opportunità preziosa di riflessione: ci invitano a ripensare l’impatto dell’obesità non solo dal punto di vista estetico, ma anche in relazione alla salute cerebrale”.
L’obesità è considerata da molti un’epidemia globale del nostro secolo, con stime che indicano che entro il 2025 oltre la metà della popolazione adulta mondiale sarà in sovrappeso o obesa. A questa condizione sono associati disordini metabolici, cardiovascolari e renali che, uniti all’invecchiamento della popolazione, mettono a rischio la salute di un numero sempre più elevato di persone.
Inoltre, oggi sappiamo che l’aumento di peso nella vita adulta è associato a un più alto rischio di sviluppare forme di demenza. Si pensa infatti che un elevato indice di massa corporea possa influire sull’integrità del cervello, causando atrofia della sostanza grigia e bianca e colpendo la solidità dei circuiti neurali. Non conosciamo però ancora i meccanismi alla base di questi fenomeni.
Per cercare di chiarire la possibile connessione tra sovrappeso, obesità e salute cerebrale, gli studiosi hanno quindi analizzato le risonanze magnetiche cerebrali di oltre 46.000 persone.
“I dati mostrano che un peso corporeo eccessivo è associato a un invecchiamento accelerato del cervello e a una maggiore atrofia cerebrale, rispetto a chi ha un peso normale: cambiamenti cerebrali che possono assomigliare a quelli osservati nelle fasi iniziali della malattia di Alzheimer”, dice Anagnostakis. “Questo vale in particolare per gli uomini: quelli in sovrappeso mostravano un cervello che appariva 'più vecchio' di circa otto mesi, mentre in quelli con obesità l'invecchiamento cerebrale era di circa due anni superiore rispetto ai coetanei con peso normale”.
Diverso il discorso per le donne. Sorprendentemente, infatti, dall'indagine è emerso che le donne con peso normale mostrano più segni di invecchiamento cerebrale e di atrofia simile a quella dell’Alzheimer rispetto alle donne in sovrappeso e anche rispetto agli uomini con peso normale.
“Sappiamo che la differenza di sesso influisce in modo diverso sul rischio di sviluppare forme di demenza, ma restano da capire i percorsi che provocano queste disparità”, commenta Anagnostakis.
Altro elemento centrale è quello dell’età. L’impatto del peso corporeo sull’invecchiamento del cervello si è rivelato infatti più marcato nei soggetti più giovani, mentre tendeva ad attenuarsi con l’avanzare dell’età.
Restano ancora da chiarire molti aspetti legati a queste connessioni. Alcuni indizi arrivano dalle analisi proteomiche realizzate dai ricercatori, ovvero lo studio su vasta scala delle proteine. Sono state identificate infatti alcune proteine nel sangue associate sia al peso corporeo che all’invecchiamento cerebrale.
“L’indagine sulle risonanze magnetiche cerebrali e le analisi proteomiche suggeriscono l’esistenza di meccanismi biologici comuni collegati tanto all’aumento di peso che all’età cerebrale”, conferma Anagnostakis. “Restano però ancora molte incognite da chiarire per mettere in luce queste connessioni e per capire i meccanismi specifici legati alle differenze di sesso”.
Lo studio è stato pubblicato su eBioMedicine con il titolo “Radiomic and proteomic signatures of body mass index on brain ageing and Alzheimer's-like patterns of brain atrophy”. (focus\aise)