L’ambiente al primo posto

ROMA – focus\aise - Circa 5 milioni di anni fa il Mar Mediterraneo fu attraversato dal più cataclismico “tsunami” di tutti i tempi, la cosiddetta “Mega-Alluvione Zancleana”. È quanto emerge da un nuovo studio condotto da un team internazionale di studiosi, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica “Communications Earth & Environment” di ‘Nature’, cui hanno preso parte – tra gli altri - l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e l’Università di Catania.
Come già ampiamente dimostrato, tra 5.97 e 5.33 milioni di anni fa il bacino del Mediterraneo fu teatro del più impressionante evento geologico-ambientale avvenuto durante il Neogene, la cosiddetta “Crisi di salinità del Messiniano”: a seguito di un sollevamento generale dell’area dell’attuale Stretto di Gibilterra, il Mare Nostrum perse la sua connessione con l’Oceano Atlantico divenendo un bacino isolato e, in un tempo geologicamente breve (circa 600 mila anni), si prosciugò quasi del tutto.
Ciò che rimase del Mediterraneo furono alcuni bacini ipersalini nei quali precipitarono, dalla colonna d’acqua in evaporazione, enormi quantità di sale e gesso, rocce oggi molto diffuse nella Sicilia centro-meridionale. L’area mediterranea, quindi, doveva apparire come una enorme distesa desertica salata, condizione che impedì a numerose specie marine di sopravvivere, segnando la loro estinzione.
Il ritorno alle condizioni marine attuali del Mediterraneo ha alimentato per più di 50 anni un’accesa diatriba scientifica tra i sostenitori di un riempimento lento (avvenuto in circa 10 mila anni) da un lato, e i sostenitori di un riempimento rapido e di natura catastrofica dall’altro.
Alcuni studi avevano già ipotizzato, sulla base di modellizzazioni idrologiche, che il Mediterraneo si riempì nuovamente nel giro di pochi anni (da 2 a 16) a causa dell’improvviso collasso della barriera geologica che lo aveva isolato dall’oceano Atlantico, l’istmo di Gibilterra. Tuttavia, la prova capace di supportare un simile scenario non era mai stata trovata. Se avvenuto, un fenomeno naturale così impressionante, con tassi di riversamento dell’acqua di mare dall’Atlantico al Mediterraneo stimati tra 65 e 100 milioni di m3 al secondo - superiori di gran lunga a quelli di qualsiasi altra alluvione catastrofica conosciuta nella storia della Terra - avrebbe dovuto necessariamente lasciare la sua firma sul paesaggio.
“La nostra ricerca si è proposta di individuare la prova in grado di avallare la tesi del rapido e violento riempimento del Mediterraneo, e ha visto la partecipazione di studiosi provenienti da varie Università e Istituti di ricerca europei ed extraeuropei (Italia, Spagna, Germania, Inghilterra e California)”, spiega Giovanni Barreca, Professore del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Catania e Associato di ricerca presso l’Osservatorio Etneo dell’INGV. “Ci siamo concentrati su una vasta area siciliana tra le province di Siracusa e Ragusa, nella parte più meridionale dell’altopiano ibleo - tra Noto, Portopalo, Rosolini e Pozzallo - e nelle aree sommerse del Golfo di Noto. Grazie a un approccio multidisciplinare siamo stati in grado di fornire le evidenze più convincenti del passaggio nella zona della Mega-Alluvione Zancleana circa 5 milioni di anni fa”.
“Abbiamo notato come l’area studiata sia oggi dominata da più di 300 colline dalla forma stretta ed allungata, disposte in direzione Nord Est-Sud Ovest e separate da profondi solchi paralleli. Lo studio morfo-metrico e la modellizzazione idrodinamica hanno rivelato come le colline siano state verosimilmente modellate fluido-dinamicamente dall’azione su larga scala di un consistente flusso d'acqua turbolento avente direzione predominante verso Nord Est.
Le analisi stratigrafiche hanno permesso di ricostruire il paesaggio in epoca precedente l’arrivo della catastrofica alluvione (cioè, prima di 5.33 milioni di anni). L’area doveva apparire come un’estesa baia di mare basso sul cui fondale si depositavano sedimenti calcarei, gessi e sali. Parzialmente emersa alla fine della Crisi di salinità del Messiniano per via dell’abbassamento del livello del mare legato all’evaporazione, l’area venne poi inondata – secondo i risultati del nostro studio - dall’imponente massa d’acqua proveniente dal Mediterraneo Occidentale. La forza esercitata dal peso della colonna d’acqua e il suo impetuoso scorrere verso Est hanno fortemente rimodellato il paesaggio con l’escavazione di profondi solchi paralleli alla direzione del flusso. L’erosione del paesaggio ha prodotto enormi volumi di detriti rocciosi, strappati probabilmente dal vicino altopiano ibleo e oggi preservati sulle creste delle colline; l’enorme massa di acqua e detriti ha inoltre scavato un gigantesco canyon (il cosiddetto ‘canyon di Noto’)”, prosegue Barreca.
La ricostruzione geologico-stratigrafica effettuata dal team di ricerca, supportata da realistiche modellizzazioni numeriche, fornisce dunque la prova visibile e più convincente della più grande mega-inondazione ipotizzata sul nostro Pianeta.
L’area analizzata potrebbe diventare in futuro sito di interesse mondiale per gli studiosi di alluvioni catastrofiche, tema oggi sempre più attenzionato soprattutto nelle regioni periglaciali (ad esempio, India, Pakistan, Cina e Perù) dove, a causa dell’innalzamento delle temperature e dello scioglimento dei ghiacci, le inondazioni da collasso di laghi potrebbero diventare sempre più frequenti e pericolose, esponendo a questo rischio un totale di circa 15 milioni di persone nel mondo.
Sono in arrivo nuovi strumenti di monitoraggio e previsione ad alta risoluzione della qualità dell’aria grazie al programma europeo Copernicus Atmospheric Monitoring Service (CAMS), che intende estendere e migliorare i servizi su scala locale nell’ambito del progetto CAMS2_72IT_bis, realizzato in collaborazione con ENEA, Ispra (coordinatore), CNR-Isac, Università di Tor Vergata, Consorzio Italiano della Copernicus Academy e di 8 ARPA - Agenzie Regionali per la Protezione dell’Ambiente (Emilia-Romagna, Lombardia, Campania, Liguria, Piemonte, Veneto, Umbria, Valle d’Aosta).
Già oggi, il CAMS offre una serie di strumenti avanzati per il monitoraggio e la gestione della qualità atmosferica. Tra questi vi sono: previsioni giornaliere fino a cinque giorni su gas serra, ozono, aerosol e altri inquinanti atmosferici; monitoraggio dei gas serra, inclusi CO₂, metano e protossido di azoto, per analizzare le tendenze globali delle concentrazioni di questi gas; rianalisi atmosferiche, che forniscono serie storiche di dati combinando osservazioni e modelli, ideali per studi a lungo termine sull’evoluzione delle condizioni atmosferiche; monitoraggio degli aerosol, con informazioni su polveri naturali (come quelle sahariane), aerosol antropogenici e ceneri vulcaniche, utili anche per la gestione del trasporto aereo; monitoraggio della stratosfera e dell'ozono, per rilevare il buco dell’ozono e monitorare le radiazioni UV a livello globale; analisi di eventi di inquinamento globale, come incendi boschivi, trasporto di polveri e emissioni vulcaniche, che influenzano la qualità dell’aria su larga scala.
“CAMS è un punto di riferimento per il monitoraggio dei gas serra e degli aerosol (come PM, pollini e polveri sahariane) a livello globale ed europeo; grazie alla combinazione di dati satellitari e modelli atmosferici, offre strumenti essenziali per affrontare le sfide legate all’inquinamento e ai cambiamenti climatici”, spiega Antonio Piersanti, responsabile del Laboratorio ENEA Modelli e misure per la qualità dell’aria e osservazioni climatiche.
“Per i prossimi tre anni il nostro compito sarà quello di ‘adattare’ (in gergo tecnico downscaling) a livello nazionale, regionale e locale i servizi sulla qualità dell’aria forniti dal sistema Copernicus. Ciò significa che i dati e le previsioni sulle concentrazioni degli inquinanti atmosferici sviluppati finora su scala globale ed europea diventeranno di maggiore dettaglio per il nostro Paese e saranno resi accessibili alle amministrazioni locali che potranno utilizzarli per prendere decisioni più informate e consapevoli per il monitoraggio e la gestione dell’inquinamento, la pianificazione urbana e l’implementazione di politiche di riduzione delle emissioni. Tutto questo con l’obiettivo di proteggere la salute dei cittadini e rispettare le normative ambientali”, aggiunge Massimo D’Isidoro, responsabile scientifico del progetto per ENEA.
Nel dettaglio, i ricercatori ENEA condurranno l’attività di downscaling dei campi di concentrazione degli inquinanti mediante il modello ENEA per le previsioni della qualità dell'aria FORAIR-IT, che continuerà ad operare in parallelo con i corrispondenti sistemi previsionali di ARPA Emilia-Romagna (kAIROS) e CNR-ISAC (CHIMBO).
Allo scopo di rafforzare la collaborazione tra le istituzioni che gestiscono gli strumenti di previsione, i tre sistemi modellistici nazionali forniranno i campi di concentrazione alle ARPA di Emilia-Romagna, Liguria, Lombardia, Piemonte, Umbria e Veneto, per eseguire previsioni a più alta risoluzione sul proprio territorio e valutarne le potenzialità rispetto ai sistemi attualmente applicati dalle ARPA. Nel progetto, i ricercatori ENEA si occuperanno anche di studiare le intrusioni di polveri sahariane in Italia, un fenomeno che può influire significativamente sulla qualità dell’aria. Le attività riguarderanno in particolare il confronto tra i dati osservati sul territorio e le previsioni modellistiche e l’applicazione di una nuova metodologia per il rilevamento degli eventi di intrusione di polveri sahariane attraverso l’uso combinato di modelli e osservazioni.
ENEA lavora con il programma europeo CAMS anche nel progetto CAMS2_40 - Regional Air Quality Forecast, dove rappresenta l’unico partner italiano del consorzio degli 11 modelli di previsione della qualità dell’aria sull’Europa. (focus/aise)