L’ambiente al primo posto

ROMA – focus/ aise - Il professor Vito Armando Laudicina, Ordinario di Chimica agraria e Coordinatore dei Corsi di studio “Scienze forestali e ambientali” e “Agroingegneria” del Dipartimento Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali dell’Università di Palermo, è tra i componenti del team di ricercatori che ha scoperto come, in condizioni reali, le specie arboree “conservative”, ovvero quelle più efficienti nel conservare le proprie risorse, tra cui nutrienti, acqua ed energia, tendono a crescere più velocemente nelle foreste boreali e temperate rispetto alle specie “acquisitive”.
I risultati dello studio, pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica “Nature”, evidenziano il ruolo centrale delle condizioni locali nella crescita degli alberi e rappresentano un prezioso strumento per i gestori forestali, aiutandoli a prendere decisioni informate nella lotta contro il cambiamento climatico.
Il gruppo di ricercatori, coordinato da INRAE e Bordeaux Sciences Agro, ha analizzato la crescita di 223 specie di alberi piantate in 160 foreste sperimentali situate in diverse regioni del mondo, tra cui Europa occidentale, Stati Uniti, Brasile, Etiopia, Camerun, Asia sud-orientale.
“Le foreste forniscono numerosi servizi ecosistemici, tra cui la regolazione del microclima, la conservazione della biodiversità, la purificazione dell'aria e dell'acqua e la protezione del suolo. Insieme agli oceani rappresentano uno dei principali serbatoi di carbonio, grazie alla capacità di immagazzinarlo nel suolo e nella biomassa arborea – spiega Laudicina – pertanto, promuovere la diffusione di alberi a crescita rapida potrebbe rafforzare gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico”.
“Ciò – aggiunge il docente – solleva una domanda chiave per i gestori forestali: quali specie arboree possiedono il maggiore potenziale di sequestro del carbonio? Il team di ricercatori ha lavorato per dare una risposta a questa importante domanda. Le specie arboree forestali investigate sono rappresentative di tutti i principali biomi forestali. Per la Sicilia, l’area di studio è stata il “Complesso Boscato di Mustigarufi”, situato in gran parte nel territorio comunale di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta. Precedenti ricerche avevano dimostrato che, in condizioni controllate, spesso in serra, le specie in grado di acquisire in modo efficiente risorse come luce, acqua, sostanze nutritive crescono generalmente rapidamente. Esempi di tali specie acquisitive includono aceri, pioppi, farnie e querce sessili. Queste specie acquisitive presentano tratti funzionali che le aiutano a massimizzare l'uso delle risorse, ampia area fogliare specifica, elevata lunghezza specifica delle radici, ed a migliorare la loro capacità di convertire tali risorse in biomassa, elevata capacità fotosintetica massima, elevata concentrazione di azoto nelle foglie. Al contrario – continua Laudicina – le specie più efficienti nel conservare le proprie risorse interne, nutrienti, acqua, energia, piuttosto che nell'estrarne di nuove dall'ambiente, sono definite conservative, ad esempio, abete, roverella, leccio e si presume tradizionalmente che crescano più lentamente”.
“Tuttavia, - chiarisce il ricercatore – in condizioni reali nelle foreste boreali e temperate, i ricercatori hanno scoperto che le specie conservative tendono a crescere più velocemente rispetto a quelle acquisitive. Questa scoperta può essere spiegata dal fatto che tali foreste si trovano spesso in aree con condizioni di crescita sfavorevoli come bassa fertilità del suolo, clima freddo o arido. In questi contesti, le specie conservative risultano avvantaggiate poiché sono più resistenti allo stress e più abili nella gestione delle risorse limitate. Nelle foreste pluviali tropicali, dove il clima è potenzialmente più favorevole alla crescita delle piante, invece, le due tipologie di specie non mostrano differenze significative in termini di accrescimento”.
“Oltre alle tendenze generali osservate su scala di biomi principali, lo studio evidenzia il ruolo cruciale delle condizioni locali, ovvero del suolo e del clima. In alcuni contesti, le condizioni di crescita possono essere talmente favorevoli da permettere alle specie acquisitive di crescere più rapidamente rispetto alle conservative. La chiave è garantire che le specie selezionate siano adatte al loro ambiente specifico. In climi favorevoli e suoli fertili, specie acquisitive come aceri e pioppi cresceranno più velocemente e, di conseguenza, fisseranno più carbonio rispetto a specie conservative come lecci, roverelle e alcune varietà di pini. Al contrario – conclude Laudicina – in climi difficili e suoli poveri, saranno le specie conservative a possedere il maggiore potenziale di accumulo di carbonio nella biomassa”.
Due terzi dei principali fiumi italiani è attualmente a rischio erosione con arretramenti della costa che arrivano sino a 10 metri l’anno. Il quadro emerge da uno studio pubblicato sulla rivista “Estuarine, Coastal and Shelf Science” e condotto dalla professoressa Monica Bini e dal dottor Marco Luppichini del dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa. La ricerca ha analizzato i cambiamenti delle coste sabbiose italiane negli ultimi 40 anni, dal 1984 al 2024, con particolare attenzione ai delta fluviali.
Utilizzando un software che analizza immagini satellitari, Bini e Luppicchini hanno ricostruito l’evoluzione della costa italiana. Il risultato è che il 66% dei 40 principali fiumi italiani è soggetto all’erosione costiera, percentuale che sale 100% se si escludono le aree protette da difese artificiali.
“Il cambiamento climatico sta avendo un impatto significativo sull'evoluzione delle coste italiane – spiega Marco Luppichini – in particolare incidono la diminuzione delle precipitazioni e l’aumento degli eventi meteorologici estremi che alterano il ciclo idrologico e la capacità dei corsi d’acqua di trasportare sedimenti fino alla costa. A questo si aggiungono l’innalzamento del livello del mare, che contribuisce alla scomparsa di tratti di litorale, e l’incremento della temperatura delle acque superficiali del Mediterraneo che intensifica tempeste e mareggiate, accelerando il processo erosivo e riducendo la resilienza delle spiagge”.
Secondo lo studio, le aree più a rischio erosione sono il delta del Po, il Serchio, l’Arno, e l’Ombrone in Toscana e il delta del Sinni in Basilicata, tutte zone caratterizzate da un forte arretramento della linea di costa e da una significativa perdita di sedimenti dovuta a fattori climatici e antropici.
Il delta del Po è una delle zone più vulnerabili a causa dell'innalzamento del livello del mare e della riduzione del trasporto sedimentario. Nonostante alcune aree mostrino avanzamenti della costa, molte parti registrano un progressivo arretramento, in particolare nei settori meno protetti da opere artificiali.
In Toscana le foci dell’Arno e del Serchio sono soggette ad un arretramento costante di 2-3 metri l’anno mentre il delta dell’Ombrone registra una delle situazioni più critiche, con tassi di erosione fino a 5-6 metri l’anno. La ridotta disponibilità di sedimenti, dovuta a modifiche antropiche lungo il corso del fiume, e l'aumento delle mareggiate rende infatti questa zona particolarmente fragile, mettendo a rischio gli ecosistemi del Parco della Maremma e le attività economiche legate al turismo e all’agricoltura.
Il delta del Sinni, in Basilicata, rappresenta infine uno dei casi più estremi, con un’erosione che supera i 10 metri l'anno, una delle più alte in Italia.
“È chiara l’urgenza di adottare strategie sostenibili per gestire le coste, mitigare gli effetti dell’erosione e proteggere le aree più fragili – conclude Luppichini – grazie al nostro studio abbiamo realizzato un database omogeneo per l’intero territorio nazionale così da aiutare una possibile pianificazione degli interventi a difesa delle zone più a rischio, come i delta fluviali, veri e propri “hotspot” della crisi climatica in corso”. (focus\aise)