L’ambiente al primo posto

ROMA – focus/ aise – Ci sono gli strikers – specializzati nello sferrare potenti colpi di coda per stordire i pesci – e gli helpers, ovvero gli esemplari che, nelle vicinanze, agiscono come aiutanti: così uno studio internazionale, che ha riunito ricercatori e ricercatrici da Italia (Cnr-Ibf), Norvegia (Norwegian Orca Survey), Svezia (Linnaeus University) e USA (University of Hawai’s e Picture Adventures), ha ricostruito le dinamiche con cui le orche (Orcinus orca) mettono in atto le loro strategie di caccia in branco, individuando ruoli e tecniche.
Lo studio, a cui per l’Italia ha partecipato l’Istituto di biofisica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Ibf) è pubblicato sulla rivista Current Biology: i ricercatori hanno utilizzato droni per filmare la caccia di questi mammiferi marini in acque poco profonde, dove è più semplice seguire gli spostamenti degli animali, in particolare nel momento della caccia alle aringhe lungo le coste della Norvegia del nord, nella zona delle isole Vesteralen. La collaborazione ha riunito esperti della biologia delle orche norvegesi (Eve Jourdain, Norwegian Orca Survey), con esperti di ecofisiologia animale (Jacob Johansen, University of Hawai’i), e di strategie di predazione dei grandi vertebrati marini (Paolo Domenici, Cnr-Ibf).
Emerge che l’attività di caccia non è solo una questione di forza, ma un'attività sociale complessa, basata su collaborazione e posizionamento strategico, proprio come avviene negli sport di squadra. “Le riprese dall’alto ci hanno permesso di assistere alla caccia quasi come stessimo guardando una partita dagli spalti di un campo di gioco. Le orche spesso cacciano in gruppo e, come molti altri predatori, traggono notevoli vantaggi dal lavoro di squadra. Ma il modo esatto in cui coordinano le loro azioni, è rimasto a lungo un mistero”, spiega Paolo Domenici, ricercatore del Cnr-Ibf e autore della ricerca.
I ricercatori hanno osservato come tali attacchi coordinati in genere coinvolgano due orche, e come risultino molto più efficaci rispetto alla caccia svolta singolarmente. “Le orche helpers fungono da barriera, concentrando i banchi di aringhe affinché le orche strikers possano colpirle in modo più efficace”, aggiunge Domenici. “È interessante notare come il branco sembrano dividersi in ruoli specifici anche a seconda della taglia: gli esemplari più grandi hanno maggiori probabilità di partecipare alla caccia come strikers, mentre quelli più piccoli spesso collaborano nel ruolo di helpers. Un altro aspetto interessante e finora sconosciuto è stato rilevare che le orche spesso cacciano spesso con gli stessi partner.
“Questo suggerisce”, aggiunge Eve Jourdain (Norwegian Orca Survey), co-autrice dello studio, “solide relazioni a lungo termine che potrebbero aiutarle ad apprendere e migliorare insieme nel tempo”. Proprio come gli allenamenti negli sport di squadra.
Capire non solo quanta CO2 atmosferica assorbono le piante con la fotosintesi, ma anche quanta ne riescono a trattenere o trasformare in carbonio organico, è cruciale per contrastare il cambiamento climatico. Un team internazionale, di cui fa parte anche Alessio Collalti, primo ricercatore dell’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del mediterraneo (Cnr-Isafom), ha utilizzato dati globali da torri di flusso "eddy covariance", strumenti che monitorano lo scambio di carbonio tra la Terra e l’atmosfera, per creare il più ampio database sull’“efficienza d’uso del carbonio” (Carbon Use Efficiency - CUE) nella vegetazione.
“Due grossi flussi di carbonio sono controllati dalle piante”, spiega Collalti “la fotosintesi che sottrae CO2 e la respirazione che la restituisce all’atmosfera, la CUE rappresenta il rapporto tra quanto carbonio viene assorbito e quanto non viene riemesso perché trasformato e trattenuto sotto forma di carbonio organico, ossia biomassa, zuccheri, e altre molecole stabili, invece di essere rilasciata di nuovo in atmosfera”.
Lo studio, pubblicato su Nature Ecology and Evolution, colma una lacuna storica producendo oltre 2.700 stime di CUE su scala globale, un numero dieci volte superiore rispetto ai dati finora disponibili. Il team ha integrato le osservazioni con recenti teorie ecologiche e metodi statistici avanzati per stimare il bilancio netto tra fotosintesi e respirazione in diversi ecosistemi terrestri.
“Per decenni abbiamo studiato quanto carbonio assorbono le piante mediante la fotosintesi, sotto forma di CO2”, afferma Alessio Collalti, responsabile del Laboratorio di Modellistica Forestale del Cnr-Isafom di Perugia, “ma con questo studio spostiamo l’attenzione su quanto bene riescano a utilizzarlo o a trattenerlo. Un aspetto altrettanto cruciale per comprendere l’equilibrio del carbonio sulla Terra”.
Lo studio evidenzia come l’efficienza di utilizzo del carbonio non sia costante, ma vari significativamente tra differenti regioni del mondo caratterizzate da diverse forme dominanti di piante e clima. Le foreste decidue, ad esempio, mostrano una efficienza più elevata rispetto alle foreste sempreverdi, mentre praterie e colture agricole risultano generalmente più efficienti delle foreste. Gli ecosistemi di savana dominati da graminacee, invece, presentano alcuni dei valori di CUE più bassi osservati. Sebbene il clima, in particolare la temperatura, influenzi la CUE, lo studio ha rilevato una forte dipendenza dal tipo di vegetazione.
“Questi risultati hanno importanti implicazioni per le politiche climatiche e le strategie di riforestazione”, spiega Collalti, “suggerendo che l’efficienza di sequestro del carbonio da parte della vegetazione dipende non solo dalla quantità di carbonio assorbito, ma anche da quanto ne viene effettivamente trattenuto”.
Lo studio è importante perché la CUE è una componente fondamentale del ciclo del carbonio terrestre, ma a causa delle difficoltà nel misurare direttamente la respirazione delle piante e la loro capacità di trattenere in composti organici non climalteranti il carbonio, è spesso trattata come una costante nei modelli dei sistemi terrestri, introducendo incertezze significative nelle proiezioni climatiche e di carbonio. Questo nuovo dataset tiene conto, infatti, di un vincolo fisiologico essenziale per migliorare l’accuratezza di questi modelli su larga scala.
“Capire dove e quando le piante sono più efficienti nell’uso del carbonio è fondamentale per progettare strategie più efficaci di mitigazione climatica,” sottolinea Collalti “soprattutto in vista degli investimenti su riforestazione e soluzioni basate sulla natura”.
Pur rappresentando un passo avanti significativo, i ricercatori riconoscono che l’efficienza d’uso del carbonio è dinamica. Le variazioni stagionali, la biodiversità e le condizioni ambientali locali possono influenzare la CUE nel tempo. I prossimi studi esploreranno in modo sistematico le variazioni spaziali e temporali della CUE, per raffinare ulteriormente la nostra comprensione dei flussi di carbonio negli ecosistemi terrestri. (focus\aise)