Omaggio a Diego - di Pasquale Romito

AVERSA\ aise\ - Domani, 30 ottobre 2025, Diego Armando Maradona avrebbe compiuto 65 anni, la mia stessa età. La morte non ha consentito che ciò accadesse, privando il mondo – e soprattutto la sua famiglia – della sua presenza terrena.
Non mi sento in grado di parlare tecnicamente del Maradona calciatore, pur avendolo visto all’opera sia dal vivo, insieme ad altri ottantamila spettatori nello stadio che oggi porta il suo nome, sia in televisione, insieme a milioni di persone di ogni etnia, religione e ceto, tutte estasiate dal suo modo unico di intendere e giocare a calcio. Già, il calcio, questo “giuoco”, come lo chiamava il Maestro Brera, per il quale quel ragazzo nato – per avventura – in un piccolo sobborgo, meglio: una specie di favela argentina, Villa Fiorito, poco distante dalla cittadina di Lanús, a sud di Buenos Aires, ha concentrato in sé tutto quanto di meraviglioso, imprevedibile, incredibile e inimmaginabile: in poche parole, il genio del gioco del calcio.
Potrei passare ore a descrivere e ricordare le cose incredibili che gli ho visto fare con il pallone e con il suo magico piede sinistro, ma oggi la mia, la nostra, attenzione voglio rivolgerla a Diego, non a Maradona. Sono ventotto anni che trascorro le vacanze estive a Scalea, cittadina calabrese della provincia di Cosenza, celebre per le sue bellezze naturali e paesaggistiche, nondimeno per altri aspetti che non citerò.
Ebbene, giocoforza, in tante estati, tra tuffi nel mare limpido, pomeriggi a Burraco e albe passate a pescare qualche esemplare ittico meritevole di essere trionfalmente esibito una volta a terra, si stringono amicizie vere – poche – conoscenze – tante – e si scoprono aneddoti, episodi e storielle che col tempo spesso sbiadiscono e si perdono nella nebbia dei ricordi.
Finché, in uno di quei pomeriggi, accade – per merito del vulcanico professore Ciriaco “Gigi” Scoppetta – che, durante una delle nostre amabili conversazioni in cui ci eravamo reciprocamente confessati la passione per il “giuoco del calcio” e per il suo unico e inarrivabile interprete, mi disse: “Ma lo sai che Maradona ha giocato a Scalea?”.
Sul momento rimasi incredulo, ma la fonte non mi consentiva di dubitare nemmeno per un secondo della veridicità della notizia, anche se nella mia cassetta dei ricordi non trovai nulla che potesse far risalire all’avvenimento.
Accadde realmente lunedì 4 novembre 1985. In quella data, memorabile per tutti i calabresi, Diego giocò un’amichevole allo stadio D. Longobucco di Scalea, che contrapponeva una rappresentativa UNICEF capitanata da Diego Armando Maradona alla locale U.S. Scalea.
La domenica precedente Diego si era reso protagonista di una delle magie che rimarranno per sempre nella memoria dei tifosi napoletani e di tutto il mondo: un calcio di punizione con una traiettoria che nemmeno oggi, con tutti gli algoritmi dei supercomputer, l’intelligenza artificiale riesce a emulare. Diego segnò al malcapitato Stefano Tacconi, portiere dell’odiata Juventus, un gol che, come si dice in questi casi, “verrà conservato in cineteca”, ma soprattutto resterà nel cuore di chi, come me, ebbe la fortuna di essere presente nella curva alle spalle della porta difesa da Tacconi.
Testimone io della magia della domenica e testimone – nonché protagonista in campo – il lunedì successivo, come mi riferì l’ineffabile Gigi Scoppetta, fu un allora ragazzo di 23 anni di Scalea, Pasquale Cecere, che ho la fortuna e il privilegio di conoscere da anni, ma che, pur conversando spesso sulle peripezie della nostra squadra del cuore, il Napoli, o sulle fortune del tennis italiano – il suo sport di elezione – non mi aveva mai raccontato di cotanto onore: aver giocato a calcio insieme a Diego Armando Maradona in una partita ufficiale. Non vi tedierò con la cronaca dettagliata dell’evento, che fu descritta dai colleghi del tempo – uno fra tutti Umberto Labozzetta – ma l’occasione era troppo ghiotta per non sentire, dalla viva voce di uno dei protagonisti, com’era Diego.
Per questo, un pomeriggio di fine agosto scorso ho chiesto a Pasquale di concedermi un po’ del suo tempo per rispondere a qualche curiosità sulla personalità di Diego in quel momento della sua vita.
Vi domanderete: “Ma che vuole questo scriba? Di Maradona sappiamo tutto!” La sua vita, e perfino la sua morte, è stata costellata di eccessi: la droga, il figlio illegittimo concepito con l’allora signorina Sinagra – prima rifiutato, poi riconosciuto –, il matrimonio faraonico con Claudia Villafane, la fuga da Napoli, il soggiorno a Cuba e l’amicizia con Fidel Castro, il periodo a Dubai con il mistero delle casseforti… e chi più ne ha più ne metta.
Ma Diego, com’era davvero?
Non avendo una conoscenza diretta, come ogni giornalista ho cercato di documentarmi, e prezioso è stato l’aiuto di uno dei pochi veri amici di Diego, Ciro Ferrara, che nel suo libro “Ho visto Diego e dico o’ vero” (2020) – poco noto forse ai più perché non indugia sugli eccessi – racconta come, per sua stessa ammissione, in lui convivessero quasi due personalità: da una parte Diego e dall’altra Maradona, una sorta di dottor Jekyll e mister Hyde.
Qui richiamo il professore Gigi Scoppetta, sicuramente più qualificato di me nel dipanare tale intricata matassa.
Avendo poi a disposizione la preziosissima testimonianza di Pasquale, ho sondato i suoi ricordi – lucidissimi – su Diego, e sono emersi particolari che hanno rafforzato l’idea che mi ero fatto. Pasquale mi racconta che Diego, per quella occasione, non percepì alcun compenso economico: pretese soltanto una serie di divise complete da calcio da inviare in Argentina ai ragazzini di Villa Fiorito che, come lui anni prima, non potevano permettersi di comprarle.
A riprova della sua grande generosità, Pasquale ricorda che a fine partita l’arbitro chiese a Diego un ricordo e lui – avendo già donato tutta la divisa di gara – gli regalò il suo accappatoio ancora umido.
Ricordo a tutti che Diego, anni dopo, si rese protagonista di un episodio ancora più toccante: nella mitica partita sul campo-risaia di Acerra sfidò la propria società per partecipare a una gara di beneficenza, raccogliendo fondi per far operare il figlio di un tifoso che gli aveva chiesto aiuto. Contro il parere del club, che voleva tutelarlo da eventuali infortuni, non solo scese in campo, ma pagò personalmente i premi assicurativi per sé e per i compagni che lo seguirono nell’iniziativa.
Ma torniamo al campo di Scalea, quel lunedì 4 novembre 1985. Anche in quel caso, per una strana coincidenza, il terreno era ridotto a una risaia o, se preferite, a un pantano. Diego, accompagnato dalla mamma Tota, dai fratelli Hugo e Lalo e dall’allora fidanzata Claudia, arrivò a Scalea da fresco giustiziere della Juventus al San Paolo, ma preferì parlare del suo ruolo nell’UNICEF, più che della vittoria sulla Juve o del suo incredibile gol su punizione.
Emergeva un Diego che, come confermò il buon Pasquale, non vestiva i panni della star internazionale, ma che nel pre-gara e durante la partita si comportava esattamente come un qualsiasi giocatore di venticinque anni, con la differenza che la qualità era inarrivabile e accompagnata dallo stesso atteggiamento rispettoso di un vero campione. Della nostra chiacchierata colpì anche la semplicità del racconto di Pasquale: mai enfatico o autoreferenziale. Anzi, con grande candore mi confessò che spesso si incantava a osservare Diego giocare. Le occasioni di contrasto sul campo furono rare: Diego agiva in posizione di “libero” e il nostro mentore da “stopper”. La raccomandazione di Silvio Longobucco ai ragazzi dello Scalea era stata chiara: evitare entrate, limitarsi a temporeggiare e ad accompagnare Diego, scongiurando possibili contatti, anche fortuiti. Grazie alla generosità di Pasquale, ho ricevuto alcune foto dell’evento che, oltre alla sua testimonianza preziosa e puntuale, mostrano sia l’attenzione a ciò che Diego faceva in campo e come lo faceva, sia il fatto che, anziché marcare la punta a lui assegnata, osservava Diego mentre calciava la sfera a pochi metri di distanza.
Tra le foto, una rappresenta una vera rarità: ritrae i tre fratelli Maradona insieme su un campo di calcio. A mia memoria, immagini simili non ne esistono molte. Come dimenticare, poi, l’immagine di Diego colto nel momento in cui, controllando un pallone, sembra sospeso in aria: non tocca il terreno fangoso con entrambi i piedi e il suo magico sinistro sta per addomesticare la pelota con l’esterno del piede. Pura poesia del giuoco del calcio alla ennesima potenza.
Sono sicuro che questo sia, pur raffazzonato, un omaggio accorato a una persona che, lo si voglia o no, ha segnato il cuore di diverse generazioni di tifosi napoletani e non, e che ha rappresentato – non lo dimentico, da napoletano innamorato della mia città – un momento di vero riscatto sociale per una metropoli non sempre portata a esempio positivo, spesso svilita da preconcetti, e che ancora oggi soffre di ostilità e stereotipi negativi.
Intendiamoci: non dico che Diego non sia stato il Maradona che il mondo ha conosciuto; dico solo che il Diego arrivato a Napoli da Barcellona era – ed è rimasto – un ragazzo che amava giocare a pallone e che nel giuoco del calcio trovava la serenità che la vita, nei suoi disegni imperscrutabili, non gli ha concesso, quasi indirizzandolo su quella strada lastricata di cocaina dalla quale, purtroppo, non ha avuto la forza di tornare indietro.
Dedico queste righe a Diego, alla vigilia del suo 65° genetliaco, e agli amici di Scalea che, se vorranno, potranno tra poco ricordare – e magari festeggiare – i quarant’anni da quel magico lunedì 4 novembre 1985.
Un doveroso ringraziamento al professore Ciriaco “Gigi” Scoppetta per avermi dato l’opportunità di conoscere l’avvenimento. Un ringraziamento ancora più grande va all’amico Pasquale Cecere che, da testimone diretto, attingendo alla sua memoria e ai suoi ricordi, mi ha fornito foto e locandine, oltre a emozioni e sentimenti che spero di essere riuscito a tradurre in prosa. (pasquale romito\aise)