I passi della ricerca

ROMA – focus\aise - Nuove e importanti informazioni sull’architettura genetica e sulle basi biologiche del disturbo bipolare. La rivista internazionale Nature ha recentemente pubblicato uno studio – intitolato “Genomics yields biological and phenotypic into bipolar disorder” – condotto dal Psychiatric Genomics Consortium (PGC), un consorzio internazionale di scienziati dedicato allo studio delle basi genetiche dei disturbi psichiatrici. Il consorzio coinvolge oltre 800 ricercatori delle basi genetiche provenienti da più di 150 istituzioni in oltre 40 paesi.
Del consorzio fanno parte anche alcuni ricercatori dell’Università di Cagliari: il professor Alessio Squassina e la professoressa Claudia Pisanu della sezione di Neuroscienze e farmacologia clinica del dipartimento di Scienze biomediche, e i professori Mirko Manchia e Bernardo Carpiniello della sezione di Psichiatria del dipartimento di Scienze mediche e sanità pubblica.
Il gruppo di scienziati dell’ateneo cagliaritano ha contribuito alla ricerca mettendo a disposizione del PGC i dati clinici e genetici di circa 600 pazienti con diagnosi di disturbo bipolare reclutati in Sardegna, capitalizzando così il lavoro svolto negli ultimi trent’anni da Carpiniello e dalla professoressa Maria Del Zompo (Università di Cagliari) con il professor Leonardo Tondo (Harvard University).
Il disturbo bipolare è un disturbo psichiatrico complesso che comporta significative variazioni dell’umore sia in senso maniacale che depressivo. Si stima che colpisca circa 40-50 milioni di persone in tutto il mondo ed è spesso associato a una serie di esiti negativi, incluso il suicidio. Nonostante gli sforzi condotti negli anni, si sa ancora poco sulla biologia di questa malattia: possono essere convolti fattori psicosociali, l’ereditarietà, cambiamenti nel livello di neurotrasmettitori cerebrali. In genere occorrono diversi anni per una diagnosi corretta e i trattamenti farmacologici oggi disponibili sono efficaci solo in una parte dei pazienti.
Lo studio condotto dal consorzio PGC si è posto l’obiettivo di approfondire la biologia del disturbo bipolare, al fine di identificare possibili strategie per una migliore prevenzione di questa malattia. Le analisi genomiche sono state condotte su una popolazione di 158.036 pazienti con disturbo bipolare e 2.8 milioni di soggetti sani, di diversa origine etnica (europea, asiatica, afroamericana e latina), reclutati presso 79 centri.
“Sebbene non abbia impatti immediati nella cura dei pazienti -spiegano Alessio Squassina, Claudia Pisanu, Mirko Manchia e Bernardo Carpiniello – questo lavoro fornisce importanti informazioni biologiche che potrebbero aprire la strada allo sviluppo di trattamenti migliorati, interventi precoci e approcci di medicina di precisione per una gestione più efficace dei pazienti con disturbo bipolare. I risultati hanno consentito di scoprire 298 regioni del genoma contenenti varianti genetiche che aumentano il rischio di disturbo bipolare, rappresentando un aumento di oltre 4 volte il numero di regioni a rischio genetico identificate negli studi precedenti. Delle 298 regioni identificate, 267 non erano mai state associate prima al disturbo bipolare, confermando l’importanza di studi su popolazioni numerose. L’analisi ulteriore di queste 298 regioni tramite approcci analitici complessi ha consentito inoltre l’identificazione di 36 geni ad elevata rilevanza per il rischio di disturbo bipolare, geni che potrebbero costituire oggetto di studi futuri. Il loro ruolo biologico suggerisce un possibile coinvolgimento dei neuroni della corteccia prefrontale e dell’ippocampo nel disturbo bipolare, così come un ruolo di alterazioni a carico di cellule specifiche dell’intestino crasso e del pancreas”.
Dal 5 al 7 febbraio scorsi la città di Rabat, in Marocco, è stata il centro del dibattito sulla cooperazione spaziale tra Africa e Medio Oriente, ospitando l’Africa Middle East Space Conference (AMESC). L’evento ha riunito diversi capi di agenzie spaziali tra cui il presidente dell'Agenzia Spaziale Italiana, Teodoro Valente, il presidente dell’Agenzia Spaziale Egiziana (EgSA), Sherif Mohamed Sedky e autorità del calibro del presidente del Council of the African Union, Tidiane Ouattara. Anche l’ESA ha preso parte ai lavori, confermando l’importanza dell’incontro a livello internazionale.
Nel suo intervento al panel “Expanding Space Accessibility: Making Space Resources Available for All Nations”, riporta l’Asi, Valente ha evidenziato le opportunità di collaborazione tra l’Italia e i paesi dell’Africa e del Medio Oriente, sottolineando l’importanza delle alleanze strategiche per favorire lo sviluppo di programmi spaziali sostenibili. Durante la conferenza, Valente ha risposto a domande sul ruolo delle agenzie spaziali nazionali e sull’importanza dell’educazione scientifica per incentivare la crescita del settore.
“L'Italia, come ponte tra Africa ed Europa, e l’Agenzia Spaziale Italiana riconoscono l'importanza della cooperazione spaziale per la crescita economica globale”, ha affermato Valente nel corso del suo keynote speech su “Empowering Africa's Space Generation: Building Capacity through Education and International Collaboration”. “Abbiamo costruito una rete permanente di collaborazione spaziale tra Italia e Africa attraverso accordi con Algeria, Egitto, Kenya e Sudafrica, promuovendo sinergie nella ricerca, nell'innovazione e nell'educazione. ASI collabora inoltre con altre 21 paesi africani, rafforzando lo scambio di conoscenze e la crescita delle competenze locali. Un simbolo chiave di questa cooperazione è il Centro Spaziale Luigi Broglio in Kenya, gestito da ASI in collaborazione con la Kenya Space Agency, che svolge un ruolo fondamentale nella formazione e nell’educazione. Al centro di questa iniziativa c’è il Piano Mattei per l'Africa, che promuove una cooperazione equa in settori strategici come istruzione, agricoltura, salute, energia e risorse idriche, rafforzando l’impegno dell’Italia nella diplomazia spaziale e nel trasferimento tecnologico”.
La partecipazione dell’Italia all’AMESC 2025 segna un ulteriore passo avanti nella costruzione di relazioni solide tra i paesi del Mediterraneo, dell’Africa e del Medio Oriente. L’evento ha rappresentato un’opportunità per rafforzare lo scambio di conoscenze e avviare nuove collaborazioni strategiche nel settore spaziale.
Usare l’acqua come carburante, per viaggiare nello spazio. È la sfida di WET – Water-based Electric Thrusters, nuovo progetto di ricerca Horizon Europe coordinato dall’Università di Bologna. Gli studiosi esploreranno il comportamento del plasma generato a partire dall’acqua per ideare una nuova tipologia di propulsore elettrico da utilizzare sui satelliti spaziali.
"Con questo progetto vogliamo fare un passo decisivo verso la standardizzazione di tecnologie di propulsione sostenibili, in grado di ridurre l’impatto ambientale delle missioni spaziali e di sfruttare le risorse disponibili nello spazio", spiega Fabrizio Ponti, professore al Dipartimento di Ingegneria Industriale dell'Università di Bologna (Campus di Forlì), che coordina l'iniziativa. "Grazie all’acqua, un propellente ecologico e versatile, potranno aprirsi possibilità inedite per l’esplorazione dello spazio profondo, con un occhio di riguardo alla sostenibilità economica e ambientale".
Ospitato all’Alma Propulsion Laboratory, nel Campus di Forlì dell’Alma Mater, il progetto WET punta a sfruttare l'acqua come propellente per i thruster spaziali, trasformandola in plasma e utilizzando l’energia elettrica prodotta per generare spinta cinetica. A lavorare su questa sfida ci sarà un consorzio di nove università e istituti di ricerca provenienti da Europa, Africa e Oceania che metterà in campo competenze di ingegneria avanzata, sulla fisica del plasma e su sistemi tecnologici innovativi.
Il gruppo di ricerca studierà i processi fondamentali che regolano la formazione e il comportamento del plasma generato a partire dall’acqua per arrivare a progettare un propulsore elettrico capace di azionare i veicoli spaziali.
I laboratori utilizzati verranno potenziati per permettere la validazione sperimentale delle nuove tecnologie e saranno anche testati strumenti per misurare e caratterizzare il plasma a base d’acqua, garantendo così risultati precisi e ripetibili.
Tutto questo per dare vita a un nuovo modello di propulsore spaziale pensato per operare in un range di potenza tra i 500 e i 1000 watt, che sarà particolarmente adatto ai piccoli satelliti (SmallSats) e avrà il potenziale per applicazioni nello spazio profondo.
"Il progetto WET mira non solo a sviluppare una tecnologia innovativa, ma anche a creare una nuova visione per il futuro dell’esplorazione spaziale", aggiunge il professor Ponti. "Grazie alla collaborazione tra istituzioni di eccellenza da tutto il mondo, possiamo immaginare un futuro in cui l’accesso allo spazio sarà sempre più sostenibile e democratico, aprendo nuove opportunità per la ricerca e l’industria".
La standardizzazione della propulsione a base d’acqua è infatti un passo avanti fondamentale per rendere le tecnologie spaziali più accessibili e sostenibili, aprendo anche la strada ad altre possibili applicazioni. Tutto questo offrendo opportunità di crescita professionale a giovani ricercatori e ricercatrici di tutto il mondo, con un’attenzione particolare alla diversità di genere e all’inclusione sociale.
Il progetto WET – Water-based Electric Thrusters è finanziato nell'ambito del programma Horizon Europe MSCA Staff Exchange. Insieme all’Università di Bologna, che coordina l’iniziativa, sono coinvolti: International University of Rabat (Marocco), Università degli Studi di Padova (Italia), Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR, Italia), Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS, Francia), Università di Stoccarda (Germania), The University of Auckland (Nuova Zelanda), The Australian National University (Australia), Université Chouaib Doukkali (Marocco). (focus/aise)