L’ambiente al primo posto

ROMA – focus\aise - Utilizzando misurazioni raccolte dai satelliti Swarm, sviluppati per monitorare il campo magnetico terrestre, gli scienziati hanno esaminato le possibili anomalie magnetiche antecedenti alcuni grandi eventi sismici.
Nello studio “Successful Tests on Detecting Pre-Earthquake Magnetic Field Signals from Space” appena pubblicato sulla rivista Remote sensing di MDPI, il team di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Institute of Geophysics dell’Università di Teheran (IRAN), con fondi INGV-MUR (Progetto Unitary, Pianeta Dinamico), ASI (Progetto Limadou Scienza+) e dell’Università di Teheran, hanno analizzato 1077 terremoti significativi, avvenuti tra il 2014 e il 2023 nella regione tettonicamente attiva della fascia Alpino-Himalayana.
“Abbiamo sviluppato e applicato un algoritmo automatico per analizzare i dati magnetici registrati fino a 10 giorni prima di ciascun terremoto”, spiega Angelo De Santis, ricercatore associato dell’INGV e corresponding author dell’articolo. “I risultati preliminari ci hanno evidenziato la presenza di anomalie specifiche nei segnali magnetici, potendo presupporre una correlazione tra la durata di tali anomalie e la magnitudo dei terremoti: più elevata è la magnitudo dell'evento sismico, maggiore è la durata dell'anomalia magnetica rilevata dal satellite”.
Sebbene la previsione esatta dei terremoti resti al momento irrealizzabile, la ricerca sui precursori dei terremoti è un ambito di studio di enorme interesse e complessità.
Tra gli elementi studiati per capirne una possibile correlazione, vi sono anche alcuni cambiamenti nella ionosfera, come le variazioni nel campo geomagnetico misurato da satellite.
Tuttavia, tali segnali non si manifestano in modo uniforme per tutti i terremoti, il che presenta sfide significative per la loro affidabilità e applicazione pratica.
“Il metodo che abbiamo sviluppato”, continua De Santis, “sebbene sia basato sull'analisi delle anomalie magnetiche ex post dagli eventi, ha mostrato un'elevata capacità presuntiva nel campione analizzato, con valori promettenti di accuratezza e precisione”.
Tuttavia, gli stessi studiosi sottolineano che sono ben presenti falsi allarmi, che costituiscono ancora un limite significativo.
“Durante lo studio abbiamo condotto un'analisi approfondita per testare la robustezza dei risultati”, prosegue De Santis. “Modificando la posizione dell'epicentro, il sistema non ha rilevato anomalie significative, suggerendo che il metodo applicato può essere un buon presupposto di affidabilità”.
Lo studio rappresenta un ulteriore passo nell'indagine sui segnali pre-terremoto e apre la strada a nuove possibilità per la comprensione e il monitoraggio degli eventi sismici anche dallo spazio.
La ricerca – spiega INGV – si colloca in un contesto di sviluppo continuo di strumenti e metodologie di monitoraggio, con l’obiettivo di migliorare l’affidabilità delle analisi sismiche e fornire una base più solida per studi futuri.
Gli autori, infatti, pur consapevoli delle attuali limitazioni del metodo, auspicano che questo lavoro contribuisca a migliorare la comprensione del comportamento dei terremoti e dell’accoppiamento tra lo strato in cui si manifestano, la litosfera, e gli strati superiori dell’atmosfera e ionosfera nella fase preparatoria dei terremoti.
Il passo successivo sarà integrare questi dati con altri parametri ambientali e geofisici, provenienti da misurazioni terrestri e dall'atmosfera, per affinare ulteriormente l'accuratezza dei risultati.
Un team internazionale di scienziati è appena partito per l’Antartide per raccogliere sedimenti glaciomarini ai margini occidentali della Calotta Glaciale che consentiranno di stimare l’innalzamento futuro del livello degli oceani.
La spedizione, che coinvolge tecnici e specialisti di 13 Paesi, si inserisce nell’ambito del progetto SWAIS 2C (Sensibilità della Calotta Glaciale Antartica Occidentale a un aumento di 2°C) e utilizza tecniche di analisi paleoclimatiche per studiare campioni di sedimenti del fondale marino sotto la Piattaforma di Ross, la più grande piattaforma di ghiaccio sulla Terra, estratti tramite alcune perforazioni fino a 200 metri di profondità sotto il livello del mare.
Per l’Italia partecipano alla missione l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), l’Università di Genova, l’Università di Siena, l’Università degli Studi di Trieste e l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS), con il supporto del PNRA (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide) attraverso il progetto Italy for SWAIS-2C.
“La Calotta Glaciale Antartica Occidentale contiene una quantità di ghiaccio tale che, se dovesse fondersi completamente, farebbe innalzare il livello del mare di 4-5 metri”, spiega Paola Del Carlo, ricercatrice dell’INGV. “Ricerche recenti hanno mostrato che, a causa dell’aumento della temperatura globale dovuto al cambiamento climatico in atto, il collasso di alcune sue parti potrebbe essere inevitabile; tuttavia, tale aumento della temperatura non ha ancora riguardato le acque sottostanti la grande Piattaforma di Ross che, quindi, costituiscono ancora un sostegno che stabilizza la massa glaciale sovrastante, anche se non sappiamo per quanto”.
La missione in corso nel continente antartico mira a comprendere quale temperatura potrebbe innescare lo scioglimento della Piattaforma di Ross, con successivo collasso della Calotta Glaciale Antartica Occidentale.
“I campioni di sedimenti che il nostro team prevede di recuperare risalgono a centinaia di migliaia, se non milioni, di anni fa, e includono informazioni sull'ultimo periodo interglaciale avvenuto 125.000 anni fa, quando il pianeta era circa 1,5°C più caldo delle temperature pre-industriali”, aggiunge Del Carlo. “L’auspicio è che i risultati di questa ricerca possano contribuire a guidare i piani di previsione e adattamento all'inevitabile innalzamento del livello del mare, nonché a sottolineare ulteriormente l'urgenza di adottare politiche e soluzioni in grado di mitigare le emissioni globali di gas serra”.
La perforazione eseguita a molti chilometri dalla base più vicina – Scott Base della Nuova Zelanda – richiede una notevole capacità logistica per movimentare a bordo di un convoglio di veicoli cingolati personale e strumentazione in un viaggio di oltre 1100 chilometri sulla superficie ghiacciata. La traversata sulla Piattaforma di Ross dovrebbe durare circa 15 giorni e, una volta giunta al sito di perforazione prescelto (denominato KIS3), prevede la realizzazione di una pista di atterraggio sul ghiaccio per aerei equipaggiati con sci, consentendo ai perforatori e agli altri scienziati di raggiungere quest’area a fine novembre.
Attraverso i loro investimenti in attività inquinanti, l’uso di jet e super yacht privati, in media i miliardari presi in esame nel report emettono, in soli 90 minuti, più CO2 di quanta ne produce il cittadino medio del pianeta nell’arco della sua intera vita.
È quanto denuncia Oxfam in un nuovo rapporto, diffuso alla vigilia della Cop29, in programma a Baku in Azerbaijan dall’11 novembre.
“Esponenti dei gruppi socio-economici più ricchi hanno maggiori responsabilità, con i propri stili di vita, consumi e scelte di investimento, per l’aggravarsi della crisi climatica. – sottolinea Francesco Petrelli, portavoce di Oxfam Italia – Inoltre, le risorse di cui dispongono garantiscono loro maggiori resilienza e capacità di mitigazione degli impatti avversi dei cambiamenti climatici. Allo stesso tempo milioni di persone che hanno responsabilità ridotte per il collasso climatico ne subiscono le conseguenze più nefaste soprattutto nei contesti più poveri e meno attrezzati per resistere ed adattarsi agli eventi climatici estremi, sempre più frequenti, intensi ed imprevedibili”.
Con gli attuali livelli di emissioni, il “bilancio di carbonio” - ovvero l’ammontare massimo di emissioni globali cumulative nette di CO2 in atmosfera, che permette di contenere l’aumento delle temperature entro 1,5°C rispetto all’era preindustriale – si esaurirebbe entro 4 anni.
Lo scenario da preoccupante diventerebbe catastrofico e il “bilancio di carbonio” verrebbe “prosciugato” in appena 5 mesi, se le emissioni pro-capite si attestassero al livello di quelle odierne dell’1% più ricco del pianeta. Ci vorrebbero soli 2 giorni se tutti i cittadini del globo usassero jet e yacht privati, come quelli a disposizione dei più ricchi miliardari considerati nel rapporto.
I SUPER-RICCHI E IL COLLASSO CLIMATICO
Dall’analisi condotta da Oxfam risulta che un miliardario tra i 23 più ricchi del mondo ha volato, in media, 184 volte su un jet privato nel 2023, trascorrendo 425 ore in volo e producendo una quantità di emissioni di CO2 in atmosfera pari a quanto un cittadino medio emetterebbe in 300 anni. Nello stesso periodo, gli yacht di 18 miliardari hanno rilasciato una quantità di anidride carbonica pari alle emissioni cumulate in 860 anni da parte del cittadino medio a livello globale.
Alcuni esempi: in 12 mesi i due jet privati di Jeff Bezos hanno trascorso quasi 25 giorni in volo e hanno emesso una quantità di CO2 pari a quella che un dipendente statunitense medio di Amazon emetterebbe in 207 anni; Carlos Slim ha effettuato 92 viaggi con il suo jet privato, coprendo una distanza pari a cinque volte il giro del mondo; la famiglia Walton, erede della catena di negozi Walmart, possiede tre super yacht che in un anno hanno prodotto una quantità di CO2 equivalente a quella di cui sono responsabili circa 1.714 lavoratori di Walmart; le emissioni prodotte in tre giorni di navigazione da un super-yacht di uno dei miliardari italiani più ricchi equivalgono a quelle che una persona appartenente all’1% più povero del mondo produce in tutta la sua vita.
Le emissioni dovute allo stile di vita dei super-ricchi sono fuori controllo, ma le emissioni associate ai loro investimenti sono ancora più elevate. L’impronta di carbonio media del portafoglio finanziario di un miliardario analizzato nel rapporto è circa 340 volte superiore all’emissione media dei suoi jet privati e super-yacht.
Quasi il 40% degli investimenti dei miliardari analizzati nella ricerca di Oxfam riguarda infatti industrie altamente inquinanti: petrolio, miniere, trasporti marittimi e cemento. Se investissero in fondi a bassa intensità di carbonio, le loro emissioni da investimento sarebbero 13 volte inferiori a quelle attuali.
L’AUMENTO DI DISUGUAGLIANZE, FAME E VITTIME DOVUTE ALLA CRISI CLIMATICA
Considerando le emissioni prodotte dall'1% più ricco del mondo a partire dal 1990, il rapporto di Oxfam dettaglia le devastanti conseguenze dello status quo in tre ambiti specifici:
Aumento delle disuguaglianze globali: le emissioni attribuibili all'1% più ricco del mondo hanno prodotto un calo del PIL globale per 2.900 miliardi di dollari dal 1990 ad oggi. Se la tendenza persiste, l'impatto maggiore si avrà nei Paesi meno responsabili per il dissesto climatico. Mentre le economie avanzate saranno interessate al più da perdite contenute, i Paesi a basso e medio-basso reddito vedranno il proprio PIL aggregato contrarsi di circa il 2,5% nel 2050 rispetto al livello del 1990. L'Asia meridionale perderà il 3%, il Sud-Est asiatico e l'Africa subsahariana il 2,4%.
Crescita della fame: le emissioni dell'1% più ricco hanno causato, tra il 1990 e il 2023, perdite di raccolti che avrebbero potuto fornire cibo sufficiente a sfamare 14,5 milioni di persone all'anno. Tra il 2023 e il 2050 il numero di persone a rischio di malnutrizione cronica salirà a 46 milioni all'anno, con la regione dell’America Latina e dei Caraibi a subire gli effetti più duri (9 milioni di persone a rischio fame all'anno fino al 2050).
Vittime dovute alla crisi climatica: il 78% dei decessi in eccesso dovuti al caldo fino al 2120 si verificherà nei Paesi a basso e medio-basso reddito.
L’APPELLO AI GOVERNI IN VISTA DELLA COP 29
“Il costo del riscaldamento globale continuerà a crescere e, a meno di una seria inversione di rotta, rischiamo di avvicinarci pericolosamente al punto di non ritorno climatico – aggiunge Petrelli – Dalla COP29 devono arrivare impegni politici precisi per la riduzione delle emissioni climalteranti, ma anche finanziamenti adeguati perla copertura dei danni arrecati dagli eventi climatici avversi, soprattutto nei Paesi del Sud globale. Serve altresì una strategia coerente di investimenti in grado di favorire una transizione ecologica giusta”.
In vista della COP29, Oxfam chiede in particolare ai governi di: accelerare il phasing out dai combustibili fossili e il passaggio a tecnologie a zero o basse emissioni, aggiornando coerentemente e in modo ambizioso, entro il 2025, gli impegni nazionali sulla riduzione delle emissioni (i cosiddetti nationally determined contributions), previsti dall’accordo di Parigi e finora del tutto insufficienti; finanziare adeguatamente il fondo per la riparazione di perdite e danni determinati dal cambiamento climatico reso operativo alla COP28 dell’anno scorso che sconta ad oggi promesse di finanziamento irrisorie pari a 702 milioni di dollari a fronte di pregressi impegni di finanza climatica (100 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 a beneficio dei Paesi a basso reddito) assunti alla Cop15 di Copenaghen nel 2009 e non mantenuti; aumentare il prelievo fiscale a carico degli individui più facoltosi e sulle attività inquinanti, per recuperare risorse da investire nel finanziamento della transizione ecologica giusta. Un’imposta sui patrimoni di multimilionari e miliardari potrebbe generare introiti aggregati (su scala globale) per 1.700 miliardi di dollari all’anno. (focus/aise)