L’ambiente al primo posto

ROMA – focus\aise - Si è aperta il 20 gennaio, e si chiuderà il prossimo 30 aprile, a Roma, nella sede del Consiglio Nazionale delle Ricerche, la mostra “Il paese della biodiversità. Il patrimonio naturale italiano”, di National Geographic Italia e National Biodiversity Future Center (NBFC), il primo centro di ricerca italiano sulla biodiversità, in collaborazione con il CNR.
Il percorso espositivo multimediale presenta in 5 sale fotografie che descrivono la stupefacente biodiversità italiana e testimoniano l’importanza di preservarla.
Una cinquantina di scatti di The Wild Line - il collettivo di fotografi naturalistici composto da Marco Colombo, Bruno D’Amicis e Ugo Mellone - selezionati da National Geographic, raccontano il lato selvaggio del nostro paese, esplorando il legame tra la sua biodiversità, le attività umane e le conseguenze dei cambiamenti climatici.
Anche grazie alla sua peculiare posizione protesa nel Mediterraneo, alla sua geomorfologia, alla straordinaria diversità di habitat che ospita, e ancora al fatto di trovarsi sulle importanti rotte migratorie di molte specie di uccelli tra l’Africa e il Nord Europa, l'Italia è il paese europeo con la più grande varietà di specie viventi e il più alto tasso di specie endemiche, ma molti non sanno che più del 50% delle specie vegetali e il 30% delle specie animali sono presenti esclusivamente nel nostro paese.
La posizione privilegiata dell’Italia, d’altra parte, la espone però a significativi rischi legati al cambiamento climatico, con l’intera area mediterranea considerata un hotspot. Siccità e desertificazione nelle regioni meridionali, aumento della temperatura del mare e incremento degli eventi meteo estremi sono tutti elementi che possono concorrere ad alterare ecosistemi fragili, spesso già sotto pressione per l’impatto delle attività umane.
Il National Biodiversity Future Center ha identificato nella conservazione della biodiversità vegetale e animale una delle sfide più cruciali per l'Italia e l'intero bacino del Mediterraneo, che ospita ecosistemi gravemente compromessi (oltre il 30%). La protezione degli ecosistemi e delle specie in pericolo è una sfida che riguarda tutti. Fondamentale il coinvolgimento dei cittadini con progetti di citizen science.
Il potere evocativo delle straordinarie immagini esposte in mostra invita i visitatori a riflettere sulla ricchezza e sulla fragilità degli ecosistemi italiani e sull’urgenza di adottare strategie per conservare gli habitat naturali. Dalle piante agli invertebrati, dagli uccelli agli animali acquatici, ad alcuni dei mammiferi più iconici del nostro patrimonio naturalistico, ogni fotografia è il racconto di una specie, del suo comportamento, dei rischi a cui è sottoposta.
“La tutela dei nostri ecosistemi passa non soltanto dall’impegno del mondo scientifico o dalla messa a punto di tecnologie di ripristino e prevenzione, ma anche da una cultura della biodiversità, estesa e trasversale a tutta la società. Pertanto, il nostro augurio è che quante più persone possibile - cittadini, famiglie, studenti - colgano l’occasione per entrare in un luogo del sapere quale è il Consiglio nazionale delle ricerche, e scoprire attraverso questa mostra il vasto mondo della biodiversità e l’affascinante complessità di questo ambito di studio”, spiega Maria Chiara Carrozza, presidente CNR.
“Questa mostra è, prima di tutto, un piccolo racconto della ricchezza del nostro patrimonio naturale, che ritrae specie iconiche come l’orso marsicano, il lupo, la lince, ma anche animali di cui molti di noi non conoscono nemmeno l’esistenza e che pure hanno un ruolo cruciale nei nostri ecosistemi. In questo senso, il messaggio che racchiude è che la natura va salvaguardata nel suo insieme, nella sua complessità, e che la biodiversità del nostro paese è un capitale di valore inestimabile”, afferma Marco Cattaneo, direttore di National Geographic.
“L’importanza della mostra è nel valore in sé della stessa e negli obiettivi di comunicazione scientifica che si pone. In particolare, attraverso di essa tante ragazze e ragazzi delle nostre scuole si avvicineranno alla scoperta della natura, svilupperanno curiosità per lo studio scientifico e per la tutela della biodiversità, come sancito dall’art 9 della nostra Costituzione” dichiara Luigi Fiorentino, presidente NBFC.
L’esposizione mira a sensibilizzare il vasto pubblico sui temi ambientali, partendo dai più giovani. Sono infatti previste anche visite guidate per le scuole, con attività didattiche pensate per diverse fasce d’età e livelli di istruzione.
Una collaborazione tra ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), della Sapienza Università di Roma e dell’Università Roma Tre, ha permesso di sviluppare un modello innovativo per ricostruire l’evoluzione delle catene montuose. È quanto emerge dallo studio “Magnetic Fabric as a Marker of Thermal Maturity in Sedimentary Basins: A New Approach for Reconstructing the Tectono-Thermal Evolution of Fold-and-Thrust-Belts”, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica ‘Tectonics’.
Per stabilire l’età e le trasformazioni delle catene montuose, i geo-scienziati prendono in esame la maturità termica dei sedimenti, ovvero il riscaldamento cui le rocce e in particolare alcuni indicatori in esse presenti - come i minerali delle argille e i frustoli di legno - sono stati sottoposti nel tempo geologico.
“La maturità termica dei sedimenti riflette il grado di evoluzione della materia organica e le trasformazioni dei minerali argillosi durante la diagenesi da seppellimento”, spiega Chiara Caricchi, ricercatrice dell’INGV e prima autrice dell’articolo. “Tale maturità termica è influenzata da fattori come temperatura e tempo, ed è un concetto fondamentale per comprendere la formazione di risorse energetiche come il petrolio e il gas naturale”.
La diagenesi è un processo geologico che coinvolge i cambiamenti chimici, fisici e biologici che i sedimenti subiscono dopo la loro deposizione e prima della loro litificazione, ovvero la loro trasformazione in roccia. Questo processo avviene a temperature relativamente basse (fino a circa 200 °C) e a pressioni moderate (2-3 bar), e può durare milioni di anni.
L’affidabilità di una ricostruzione dell’evoluzione delle catene montuose dipende dal numero di indicatori termici utilizzabili, che non sono sempre disponibili.
I ricercatori di INGV, Sapienza e Roma Tre hanno individuato un nuovo potenziale indicatore basato sulle caratteristiche geometriche delle particelle che costituiscono una roccia e le loro relazioni di orientamento reciproco. Queste informazioni si ottengono a partire da una proprietà, la cosiddetta “anisotropia della suscettibilità magnetica” (AMS), che si riferisce alla tendenza dei minerali a predisporsi prevalentemente in piani perpendicolari alla direzione di deposizione e successiva compattazione dei sedimenti. Un processo che avviene quando i sedimenti vengono progressivamente ricoperti da altri depositi più recenti e poi portati in profondità nella crosta, dove sono soggetti a temperature e pressioni crescenti, per poi riemergere in superficie durante la formazione delle catene montuose.
“Le nostre analisi si prefiggono di rispondere alla domanda ‘Fino a che profondità sono stati sepolti i sedimenti analizzati prima di essere riportati in superficie dalla formazione degli Appennini?’, ovvero ‘A quali massime temperature sono stati sottoposti?”, spiega Leonardo Sagnotti, ricercatore dell’INGV e co-autore dell’articolo. “L’AMS è una proprietà che si misura nei laboratori di paleomagnetismo con strumentazione dedicata e che mette in relazione la variabilità della suscettività magnetica con la direzione in cui essa viene misurata, che dipende - a sua volta - dall’orientazione preferenziale dei minerali che costituiscono il sedimento”.
“Il nostro studio si è concentrato nell’Appennino settentrionale, in un’area compresa tra Umbria e Toscana, dove abbiamo prelevato campioni di sedimenti tra loro coerenti per le analisi di AMS e diffrazione a raggi X”, aggiunge Luca Aldega, ricercatore di Sapienza Università Sapienza di Roma e co-autore dell’articolo. “I dati delle analisi indicano che l’AMS di questi sedimenti argillosi può essere messa in diretta correlazione con i processi di deposizione e compattazione, come suggeriscono gli indicatori di maturità termica, riflettendo così l’evoluzione dei sedimenti durante il seppellimento sedimentario e/o tettonico”.
“Questa osservazione ci ha permesso di calibrare un modello basato su una correlazione lineare tra il parametro AMS e gli indicatori paleotermici che può essere applicato con successo per definire i livelli di maturità termica nei bacini sedimentari, superando le limitazioni dei metodi classici e vincolando su scala temporale le condizioni di diagenesi delle successioni sedimentarie”, evidenzia Massimo Mattei, ricercatore dell’Università Roma Tre e co-autore dell’articolo.
Ulteriori ricerche future in questa direzione potranno essere utili per migliorare la definizione della correlazione in caso di stadi di maturità termica avanzata e in successioni sedimentarie altamente deformate. (focus/aise)